lunedì 7 marzo 2016

Breathe Again

**Note di Aly
Buongiorno a tutte! So che molte di voi vorrebbero che continuassi ad aggiornare all'infinito Grido nel silenzio, ma per poter continuare quella storia mi serve calma e concentrazione, perchè voglio rendere ottimo ogni capitolo ed ogni sensazione. Alla fine quella storia vi deve coinvolgere, vi deve prendere, togliere il fiato e far tremare le ginocchia. Ho bisogno di tempo.
Ma non voglio lasciarvi senza niente da leggere. Magari qualcuna di voi ha già letto queste storie perchè avevo messo il link per il blog del contest, magari no. Così ho deciso di pubblicarla anche qui e di farvela conoscere.

Qualcosa su questa storia?
Ha partecipato al contest dell'elemento Aria del gruppo di cui faccio parte su Facebook. E sono arrivata seconda grazie a tutte le persone che hanno votato questa storia e che l'hanno trovata valida, emozionante e meritevole del loro voto. Sono orgogliosa di questo testo e delle emozioni che ha suscitato in chi l'ha letta. Spero che vi regali le stesse sensazioni.

Ci vediamo nelle recensioni.
Come sempre buona lettura,
Aly**



 
Copertina e di seguito la targa premio
 
 



 


BREATHE AGAIN


Fisso l’ora sul mio orologio in quello che è diventato, oramai, un tic.
Alzo il braccio, lo muovo in avanti in modo che la maglia e la giacca in pelle salgano dei centimetri giusti per mostrarmi le lancette. I miei occhi scendono a leggere l’orario e, come sempre, si fissano su quell’orologio donatomi tanti anni fa e a cui sono particolarmente legato. Come ho detto, è più un tic per osservare quel pezzo di metallo che fa parte della mia vita da molto tempo. È un regalo di Bella, è come un portafortuna, un ricordo, un pezzo di cuore che resterà sempre con me.
Sono in volo da cinque ore e non vedo l’ora di atterrare. È sempre così quando non sono io il pilota.
Non è che non mi fidi di chi c’è in cabina di pilotaggio, no davvero, è solo una sensazione strana, come se non arrivassimo mai, come se il tempo si congelasse mentre sei sospeso in aria. Sarà che ogni volta che sono un passeggero è perché sto volando verso casa mia e il tempo sembra non trascorrere mai! A dir la verità, sono il trasportato anche quando riparto, ma in quel caso le ore sembrano secondi; mi sbattono in faccia quanto sia facile allontanarmi dalla mia terra, dalla mia casa e dalla mia famiglia.
«Signore, vuole qualcosa da bere?» L’hostess con il carrellino mi sorride maliziosamente. Mi ha adocchiato da quando sono entrato nella cabina passeggeri; ogni volta che passava lungo il corridoio tra i sedili mi lanciava un’occhiata sperando che ricambiassi il suo sorriso lascivo e che magari la invitassi a passare con me la notte, una volta atterrati a Vancouver. Povera sciocca.
Se un tempo le avances delle ragazze mi inorgoglivano, ora mi lasciano solo divertito, semplicemente divertito. Mentre anni fa avrei esultato se una ragazza carina avesse puntato i suoi occhi su di me, se avesse mosso lei i fili dei giochi, oggi non vedo l’ora di fuggire a quegli sguardi.
«Un succo al pompelmo, grazie!» Mi guarda sospettosa e sorpresa della mia ordinazione. So bene di sembrare un omone cattivo, più dedito alla birra o qualche drink alcolico piuttosto che un banale e leggero succo di frutta. Non sono mai stato uno da sbronze il sabato sera e quando ho iniziato il lavoro ho cercato di bandirlo quasi totalmente dalla mia vita.
«Avrei detto che preferisse tre dita di Whiskey.» Mi scappa una risata ricordando una conversazione simile di molti anni prima, in un altro luogo, con una ragazza completamente diversa.

«Una birra bionda, poco alcolica, per favore!» La ragazza dietro al bancone mi scruta con i suoi occhi carichi di sgomento.
«Sei sicuro? Avrei detto che preferissi tre dita di Whiskey invecchiato con ghiaccio!» Scoppio a ridere e lei mi sorride maliziosa.
«Devo guidare, ho appena preso il brevetto di pilota d’aerei e sono stato accettato all’accademia militare. Non posso fare cazzate!» Ridacchia e mi passa una bottiglia di birra che non conosco. Il mio sguardo confuso e curioso la fa ridere e, mi accorgo, è un suono meraviglioso.
«È la mia preferita, non sono una che regge bene l’alcool e l’ho scoperta da quando lavoro qui. Ovviamente non la beve nessuno dei presenti a parte me. Ma due di queste non fanno neppure la gradazione di una bionda alla spina. Fidati di me!» Strizza l’occhio sinistro mentre pulisce parte del bancone al mio fianco.
«Sei in gamba per essere una ragazza!» Mi guarda allargando gli occhi più che può e solo in quel momento mi rendo conto che la frase, probabilmente, è uscita peggio di quello che volevo dire. «Scusa, mi sono spiegato male. Volevo dire che questo posto è… insomma…» Mi guardo attorno e le indico con la testa gli uomini mezzi ubriachi che urlano e guardano la partita di football nel grande televisore. «Come sei finita a lavorare qui?»
«È solo un lavoro serale che mi permette di studiare e di mantenermi indipendente!» Mi risponde dopo aver consegnato l’ennesimo boccale di birra a due uomini massicci e puzzolenti.
«Cosa studi?» Non sapevo ancora per quale motivo, ma volevo conoscerla.
«Architettura.»
«Wow! Progetti palazzi?»
«Una cosa del genere!» Sbuffa ridendo.



Mi riscuoto da quei ricordi solo perché l’hostess tossicchia per riportare la mia attenzione su di lei. So che vorrebbe tutta la mia attenzione, ma nessuna donna, al momento, riuscirebbe a spostare lei dalla mia mente. Mi accorgo delle sua mano che mi porge un bicchiere colmo di ciò che ho richiesto, mentre con l’altra cerca di tirare più giù che può la camicetta della divisa. Scusa carina, ma non ho tempo per te.
«Sei sicuro che non vuoi… altro?» Mormora abbassandosi verso di me, seducentemente e passando al tu informale.
Imbarazzato per i suoi tentativi, che non sfondano nessuna porta con me, mi schiarisco la voce e immediatamente mi scappa una risatina.
«Sono certo di non volere altro.» Parlo chiaramente, senza allusioni sessuali e fissandola negli occhi. Sgomenta si rialza e prosegue con il suo carrello verso gli altri passeggeri in coda. Rido tra me e vorrei tanto poter mandare un messaggio a qualcuno che riderebbe di queste avances, ma siamo in volo e dovrò semplicemente aspettare. Che noia.
L’attesa mi mette sempre di malumore, però mi lascia del tempo per ricordare, cosa che non riesco a fare spesso con tranquillità.



«Cosa ne dici se una sera di queste ti invitassi a cena?» Getta la spugna sciacquata sul bancone e pulisce dove i precedenti clienti hanno fatto un disastro.
«Dico che è meglio se giri a largo, Marines!»
«Non sono un Marines!» Rido e le nasce quel sorrisino sul volto che ho imparato ad amare. È l’ennesima sera, dell’ennesima settimana che passo in questo covo di alcolizzati solo per parlare con lei, solo per stare qualche ora in pieno relax.
«Allora, ci vieni a cena con me?»
«Naaa, sono troppo impegnata a servire birra a questo branco di zucconi!» Scrolla le spalle e riempie le ciotole di noccioline.
«Dai, non farti pregare!» Tiro fuori le banconote dalle mie tasche e le appoggio di fianco alla bottiglia ormai vuota.
«Marines, torna nei tuoi alloggi, ci vediamo domani!»
«Non sono uno che molla, ricordalo!» Sorride e mi saluta con la mano mentre io mi allontano.



****

«Non ci credo che sei qui anche stasera!» Sbotta incredula dopo avermi servito la solita birra leggera.
«Credici. Sono qui davanti a te, in carne e ossa!»
«Lo vedo, Marines!»
«Piantala di chiamarmi così!» A dir la verità un po’ mi fa incazzare. «E vieni a cena con me!» Scoppia a ridere e scuote la testa. Dannazione a lei. Non ho mai fatto fatica a invitare una donna a passare del tempo con me!
«Okay, cosa vuoi che faccia?» Mi guarda confusa.
«In che senso?»
«Per farti dire sì, cosa vuoi che faccia? Devo mettermi a ballare tra i tavoli, esultare come un alcolizzato perché una squadra ha segnato un punto, devo comprare un megafono e chiederti un appuntamento in mezzo alla strada? Scrivere su un maledetto lenzuolo con le bombolette spray?» Sbotto frustrato. Sì, sono frustrato. «Ci provo da settimane. E la tua risposta è sempre-»
«No, Marines!»
«Infatti!» Esplodo battendo la mano aperta sul bancone, un secondo dopo che lei mi interrompe. «E non sono un dannato Marines!»
Lei ride ma questa volta la sua allegria non arriva agli occhi.
«Dimmi perché dici sempre no.»
«Perché sei un dannato Marines, perché sei un pilota dell’Air Force che finito il corso di addestramento verrà selezionato per qualche missione che ti porterà lontano da Vancouver, ti metterà in pericolo e mi farà morire di paura. No grazie, Marines!» Lo dice sorridendo ma ancora una volta i suoi occhi restano seri e determinati a non lasciarsi coinvolgere. La sua fottuta risposta insieme allo sguardo fisso nel mio, quegli occhi che non sorridono e che sono un intruglio di tristezza, malinconia, sapere e determinazione mi fanno arretrare di un passo, sconvolto e abbattuto.
«Non sono un Marines.» Mormoro solamente, girando le spalle e andandomene, troppo sbigottito per poter insistere.




Quella sera non finii la mia birra, per la prima volta, lasciai comunque i soldi dovuti più una sostanziosa mancia ma me ne andai prima del solito. Non era mai capitato.
Se ci penso ora mi viene solo in mente una serie di parolacce pesanti e offensive per il ragazzo che ero allora, che sono stato anche negli anni successivi per motivi diversi. Si è mai visto un cazzo di Marines che molla? No.
Prendo il mio zaino da sotto il sedile e cerco all’interno l’album di fotografie che ci ho infilato dentro prima di partire. Inizio a sfogliarlo e pagina dopo pagina, fotografia dopo fotografia, mi emoziono, mi commuovo e mi innamoro di nuovo. Sono due anni di momenti persi con la mia famiglia: con mia moglie, con il nostro labrador bianco che abbiamo trovato molti anni fa e con i nostri splendidi bambini.
Dio, come mi fa male il cuore.
Emmett ha otto anni, i capelli del castano cioccolato di sua madre e la determinazione a essere un bravo fratello e un bravo ometto. Rosalie, invece, ha sei anni, i capelli bronzei come i miei e gli occhi verdi e birbanti proprio come quelli del suo papà; è la peste di casa, puoi stare tranquillo che nel momento in cui tutto tace tra le mura domestiche, lei ha combinato qualcosa. Alice è la piccolina, adesso ha appena compiuto tre e anni e quando me ne sono andato era solo una pupazzetta che desiderava farsi sentire con quella vocina squillante e le sua grida ipnotiche. Non li vedo da due anni e mi sembra di soffocare dal senso di oppressione che sento dentro, da come mi si stringe il cuore ogni dannato momento in cui ci penso o quando guardo ancora una volta le fotografie che mi sono state spedite. Ho solo questi dannati pezzi di carta che non mi danno nessuna rassicurazione, nessun affetto, nessun calore; sono solo lì a sbattermi in faccia cosa mi sono perso in tutto questo tempo.
Come se non lo sapessi da solo.
Come se non me lo ricordassi ogni secondo della mia giornata infinita.
Ormai avevo solo i ricordi a tenermi compagnia laggiù e, spesso, neanche servivano perché ero talmente stanco e sfibrato che chiudevo gli occhi senza parlare con nessuno.



«Non so quale miracolo sia stato compiuto per farti dire di sì, ma non sprecherò l’intera serata a nostra disposizione restando fermi davanti a questo pub. Andiamo!»
Lei ride e sale in macchina, dopo averle aperto lo sportello da vero gentiluomo e averle porto la mano per aiutarla.
«Non è un miracolo. È che sei passato ogni maledetta sera di ogni settimana, per tre interi mesi! O ti denunciavo per stalking o ti dicevo sì!» Rido mettendo in moto la macchina e facendo ridere anche lei. Anche se non sono passato proprio ogni sera, ha perfettamente ragione, sono stato insistente, determinato e persuasivo. A pensarci bene il miracolo è che non mi abbia denunciato! Alla fine non ho mollato.




I momenti della nostra vita si susseguono nella mia mente, in un vortice infinito che mi scalda per pochi istanti e poi mi lascia vuoto e disperato; le fotografie davanti ai miei occhi guardate e riguardate più volte negli ultimi tempi, sembrano mani che mi stringono la gola in una morsa ferrea per il desiderio che sento di correre a casa.


Sento le sue braccia attorno al mio collo e le sue gambe attorno alla vita, tutto il suo peso è su di me, la reggo tranquillamente e niente, negli ultimi tempi, è stato così bello.
«Ti ho già detto che sei bellissima?» Le mormoro a qualche centimetro delle labbra prima di saggiarle la bocca e intrappolarla in un bacio senza fine. La appoggio a terra, per poterla abbracciare meglio, per poterle prendere il volto in mano e accarezzarle le guance infreddolite. Le sue piccole dita ghiacciate stingono la mia maglia sotto il giubbotto, le mie tentano di donarle un po’ di calore sugli zigomi.
«Lo dici sempre.»
«Perché è vero!» Le sorrido baciandole il nasino rosso e freddo.
«Andiamo dentro. Scommetto che non vedi l’ora di bere una cioccolata calda con tanta panna!»
«Oh, veramente ho in mente altro…» Mi strizza l’occhio e cammina all’indietro verso la porta d’entrata, il portico ci ripara dalla neve che sta scendendo da qualche ora e che ha già imbiancato il giardino e pulito l’aria attorno.
«Ti amo piccola!» La prendo in braccio correndo verso l’interno, dimenticando di recuperare il mio zaino dalla macchina.
«Ti amo anche io. E mi sei mancato da impazzire!»



Se solo avesse saputo quanto era mancata lei a me, quanto mi mancava ogni volta che partivo o che le stavo lontano per tutto il giorno.
Era la prima volta che stavo via a lungo da quando eravamo diventati ufficialmente una coppia, due mesi e mezzo di servizio in una base navale vicino alle coste del Giappone e mi sembrava di essere mancato per una vita. Erano passate solo dieci settimane, eppure per una giovane coppia come noi due mesi e mezzo senza vedersi era stato l’abisso. Aveva ragione quella sera al bar: entro poco tempo mi avrebbero affidato missioni lunghe, difficili, pericolose, lontane e lei sarebbe rimasta a casa, da sola. Speravo mi aspettasse, che confidasse nel mio infinito amore per lei e che avesse fiducia in me e nel nostro destino insieme, come ci credevo io. Lei mi aveva avvisato, però. «Non so se ne sono capace, Edward!» Mi disse un pomeriggio mentre eravamo abbracciati al caldo delle nostre coperte.
C’è stata una seconda missione in Sud America, quattro mesi ancora più difficili. Quando sono tornato l’ho trovata dimagrita e angosciata, carica di apprensione e solitudine. La terza missione fuori casa che mi affidarono doveva portarmi lontano da Vancouver per sette mesi, in una base navale in Australia. Quando glielo dissi si emozionò per me, si inorgoglì e mi strinse forte come se davvero fosse felice per me. La conoscevo troppo bene, purtroppo. Sapevo leggere bene i suoi occhi, pieni di ogni più dolorosa emozione: tristezza, malinconia, solitudine. Lessi dispiacere e paura; nel momento in cui mi accompagnò davanti alla base militare prima che partissi riuscii a intravederla sconsolata e persa. Mi sentii morire, conscio che sarebbe stato uno di quei momenti scolpiti a fuoco nella mia mente e nel mio cuore. Sapevo già cosa sarebbe successo, mi sentivo come se mi stessero aprendo il petto a metà e strappando il cuore senza nessuna pena per me.



«Edward…» Le sue mani sono strette attorno al volante, le nocche sono bianche non solo per il freddo.
«Bella…» Mormoro il suo nome dolcemente.
«Ti amo da morire. Ti amo davvero tanto, io spero tu mi creda.»
«Piccola, lo so. Lo so. E ti amo anche io.»
«Questi anni con te sono la cosa migliore della mia vita, sono tutto. Li porterò con me nel cuore per il resto dei miei giorni e…» Me lo sentivo dentro, fin da quelle prime ore del mattino che avevamo condiviso. Lei aveva una strana luce sbiadita negli occhi, come se cercasse di trovare dentro di sé il coraggio per qualcosa che le avrebbe fatto del male. E il coraggio era lì, dentro quella macchina pervasa di profumo alla pesca, quello dei suoi capelli.
«Non sarai qui ad aspettarmi quando tornerò, vero?» Una lacrima scende dal suo occhio sinistro, le piccole dita corrono a spazzarla via per cercare di nasconderla. La mia bambina vuole sempre mostrarsi combattiva.
«Ti amo da impazzire.» Mi dice mentre scuote la testa e il mio petto si squarcia in due.




Non me la sentii di rispondere, né di aggiungere quanto l’amassi io; non feci nient’altro che osservarla per alcuni minuti, mentre lei fissava fuori dal parabrezza il vasto campo di addestramento circondato dal filo spinato. Non riuscii neppure ad avvicinarmi per baciarla un’ultima volta. Quella mattina avevamo speso infiniti minuti sul tavolo della cucina a lasciarci prendere dalla passione, e mi era sembrato così disperato e passionale che aveva mandato in tilt il mio cervello.
Avrei dovuto capirlo in quel momento. Avrei dovuto evitare che mi accompagnasse fino a qui e che troncasse con me pochi istanti prima di imbarcarmi. Avrei dovuto lasciarla a casa mia, ricordandomi di lei in mezzo alle mie cose, nella cucina in cui avevamo condiviso una moltitudine di colazioni e discorsi importanti, di momenti indimenticabili. Avrei dovuto chiudermi la porta alle spalle e fare in modo che potessi abituarmi all’idea di non averla con me mai più, fino a quando fossi arrivato qui davanti con un taxi. Invece me ne sono fregato del mio strano sentore, ho pensato che non l’avrebbe fatto, che ci avrebbe provato ancora una volta, che l’amore che provava per me avrebbe superato anche questo ostacolo e che non avrebbe mai trovato il coraggio per abbandonarmi.
Mi ero sbagliato.
La fissai per un altro lunghissimo minuto chiedendomi come avrei fatto a dimenticarmi di lei e come avrei estirpato dal mio cuore tutto l’amore che provavo per lei, così forte, radicato e potente da farmi capire, nonostante tutto e fino in fondo, il motivo per cui lo stava facendo. Come avrei fatto?
Scesi dalla macchina con lo stomaco stretto in una morsa d’acciaio, le lacrime che minacciavano di uscire furiosamente dai miei occhi e le mani che tremavano dalla voglia di prendere a pugni qualcuno o qualcosa.
Non ero neppure sicuro che il cuore battesse ancora al suo solito ritmo costante.
Scaricai il bagaglio e indossai il cappello della divisa, persi tempo a sistemarlo sul capo per ricacciare le lacrime da dove erano venute prima di andare a fare il mio lavoro. Poi voltai le spalle a quella macchina e camminai mettendo metri di distanza tra noi, passo dopo passo.
Non mi voltai.
Non guardai dentro l’auto così familiare; non la cercai.
Superai il cancello della base militare e camminai, camminai fino ad arrivare alla pista di atterraggio, dove l’aereo ci aspettava per la partenza.
Non mi guardai indietro, mai.
Quando fui su quell’aereo, afferrai il telefono e, per la prima volta dopo molto tempo, cambiai quel maledetto wallpaper con la nostra fotografia e lo sostituii con quello di un aeroplano. Mi presi un attimo, giusto il tempo per guardare i nostri volti sorridenti, per dire a me stesso che entrambi avevamo fatto una scelta: io il mio lavoro, lei la sua vita. Erano inconcepibili insieme, lo sapevamo, eppure faceva male.
Un male cane.
Un male del cazzo.
Serrai gli occhi per alcuni secondi e li aprii, più determinato di prima.
Mi sarei dimenticato di lei, di tutti i nostri momenti insieme, di ogni parola, di ogni emozione, di ogni sospiro sulle sue labbra, del sapore della sua pelle, del colore dei suoi occhi, del profumo dei suoi capelli e di come era bello stare dentro di lei, sentirsi completi, capiti, amati. Volevo scordare ogni cosa. Volevo cancellare lei.
Ero arrabbiato, ferito, distrutto.
Doveva essere la mia forza, la mia roccia, il mio punto di riferimento anche quando ero in missione, soprattutto quando ero lontano da casa; dovevo sapere di avere qualcuno che mi avrebbe aspettato quando sarei tornato. Invece non ne era stata capace.


«Parlavi seriamente, quando quella sera mi dicesti che non volevi accettare di uscire con me perché sarei partito per qualche missione?» Domando mentre le accarezzo i capelli morbidamente appoggiati al mio petto.
«Sì. Mio padre è un militare. È in pensione ora, o per lo meno è così che mi piace pensarlo, è in congedo permanente in realtà. Ferito da un’arma da fuoco alla schiena e paralizzato alle gambe. Il periodo più lungo passato lontano da casa fu di sei anni. L’avevano dichiarato scomparso dopo un’esplosione in missione, ma lui stava bene, aveva solo perso la memoria temporaneamente. Quando quella tornò fece ritorno in patria, a casa, tra le nostre braccia.»
«Capisco…»
«Ma poi ripartì. Non servì a nulla piangere, disperarsi, parlargli e cercare di convincerlo che avevamo bisogno di lui a casa. Un militare è fedele, nonostante le ferite, nonostante le dure lotte, nonostante il dolore, l’orrore, il terrore… indipendentemente da tutto ciò lui è fedele. È qualcosa che non si può spiegare a parole. Mio padre me l’ha sempre detto, sempre. E lo capisco, da una parte l’ho sempre capito. Ma io sono quella che aspetta, prega, ama in silenzio. Sono quella che dall’altra parte del mondo piange e attende all’infinito qualche notizia, una lettera, una mail, un segno. E aspetta la fine di quei lunghi mesi, anni, secoli perché il proprio caro ritorni. Io aspetto. Ma ho già aspettato tanto nella vita e non so se ho la forza di farlo ancora.»




Me lo disse più volte, me lo fece capire, me lo scrisse chiaramente in ogni lettera marchiata dalle sue lacrime, in ogni mail scritta con passione, fervore, malinconia nelle missioni precedenti. Mi amava, ma non riusciva ad aspettare. Non ne aveva più la forza. Quando piloto, indossando il mio casco, la maschera che mi porta ossigeno e quella divisa che pesa sulla mia pelle come se fosse fatta di ferro… penso sempre a lei per un istante. All’epoca mi chiedevo se sarebbe stata fiera di me, se ci sarebbe stata la possibilità per noi di avere un futuro nonostante tutto. Poi torno a concentrarmi. È sempre stato così, anche durante le esercitazioni, quando ancora cominciavamo a conoscerci; i dubbi su noi due sono sempre esistiti e restavano perché ero conscio che la vita di chi resta a casa ad aspettare un militare non è mai semplice.
Quella missione durò più del previsto. Undici mesi. Quando tornai a casa, nella mia casetta bianca con giardino, mi stupii di vedere il dondolo occupato da Bella.
Non era sola. In braccio teneva un fagottino a cui canticchiava una ninnananna. Mi arrabbiai. Mi arrabbiai così tanto che lanciai il borsone sotto il portico, con tutta la forza che avevo, ad un passo da lei.

«Che cazzo ci fai qui?» Mi sorride dolcemente portandosi un dito alle labbra.
«Shhh, o lo sveglierai.» Scrollo le spalle.
«Non me ne frega un cazzo. Vattene. Vattene via.»


Entrai in casa sbattendo la porta alle mie spalle. Mi fiondai sotto la doccia e poi presi una birra dal frigorifero, stupendomi di trovarlo fornito di ogni ben di Dio. Quando guardai fuori dalla finestra lei era ancora lì, a cullarsi su quel maledetto dondolo che aveva visto la nostra dichiarazione d’amore in una sera d’estate di tanti anni prima. Mi fumarono le orecchie da tanto ero incazzato e uscii fuori pieno d’ira. Lei aveva tirato una coperta sulle sue gambe e sul corpicino del piccolo.

«Ti ho detto di andartene.»
«Ti ho sentito.»
«Ma sei ancora qui.» Sputo fuori rabbioso. Lei sposta la coperta e mi fa cenno di sedermi al suo fianco.
«Vieni a sederti, voglio presentarti una persona.»
«Non me ne frega un cazzo, fuori dalle palle!»
«Edward!»
«Edward un cazzo!»
«Sei volgare, arrabbiato e grezzo. Vieni a sederti al mio fianco.»
«Tu non hai nessun diritto di stare qui! Mi hai lasciato mesi fa! Vattene. Vattene e non ritornare più! Non voglio vederti. Non voglio parlarti e non ti voglio nella mia proprietà!» Le parole dure con cui mi rivolgo a lei sono cattive e taglienti, la feriscono, ma soprattutto deludono me. Alza lo sguardo su di me, determinata e seria. Io sembro solo un pazzo che grida sotto un portico.


Ero ferito, deluso, arrabbiato. Ero molte cose quel giorno.
Non ero attento, invece. Non ero sereno. Non ero cordiale. Non ero gentile. Eppure lei non se ne andò. Mi fece segno di raggiungerla, nuovamente, e io la ignorai, tornando dentro casa. Salii i gradini di fretta fino a correre, quasi, lungo il corridoio e dentro la mia camera. Il piano era quello di gettarsi sul letto e ignorarla, mettendo più distanza possibile tra noi, tanto prima o poi se ne sarebbe andata e tornata a casa propria. Tornai indietro, però, confuso nel vedere una porta semiaperta. Era la camera degli ospiti e quando vi entrai restai allibito. Il letto matrimoniale era sfatto, le lenzuola ripiegate in un’onda strana solo da una parte. Una culla era posizionata di fianco al letto, vicino alla finestra. Sulla poltrona erano sistemati dei vestiti da donna, un fasciatoio era stato messo nell’angolo vicino alla finestra, il comò era pieno zeppo di ogni prodotto di sorta: salviettine, bagnoschiuma, profumi, creme, di tutto.
L’ira mi sconvolse e scesi di sotto fuori di me, gridando ingiurie a pieni polmoni. Aprii la porta e la vidi con un sorriso sereno sul volto rivolgersi verso di me.



«Possiamo parlare ora?» Mi chiede con quel suo sorriso che volevo disperatamente cancellare perché mi ferisce riportandomi ad un passato che non posso riavere.
«Sì, spiegami perché cazzo c’è la camera degli ospiti di casa MIA occupata dalle TUE cose e dalle cose del TUO bambino!» L’accuso puntandole il dito contro.
«Se ti calmi possiamo parlare!»
«Io non mi calmo! Sono furioso. Sono incazzato come una bestia. Sono fuori di me! Questa è casa MIA! È MIA, NON TUA!» Grido e queste parole la scuotono, la fanno rabbrividire nonostante le coperte, la feriscono come non l’ho mai ferita. Tempo fa le avevo detto di considerare casa mia come se fosse sua, nostra; lei mi aveva sorriso e avevamo fatto l’amore aggrappati al muro d’entrata. Scaccio quel ricordo, furioso con me stesso. «Tu hai detto che non mi avresti aspettato. Sei andata avanti con la tua vita. Sono tornato e te ne devi andare!» Sputo veleno senza accorgermi che sto diventando sempre più stronzo. L’arrabbiatura che è esplosa non so da dove venga.
«E tu? Sei andato avanti con la tua vita?» Mi chiede in un mormorio mentre sistema la copertina al bambino.
«Sì, ti ho dimenticata. Perciò vattene!»



La vidi sorridere. Sorrise davvero e il cuore fu intrappolato in una morsa ancora più dolorosa. Era il dolore più forte possibile. Nonostante fossi un cazzo di militare non ero pronto a quel malessere. Ero pronto a sentirmi dire che non mi avrebbe aspettato, ero pronto a sentirmi dire che si era rifatta una vita, che mi aveva dimenticato ma rivederla, stare con lei a stretto contatto, sentire quel maledetto profumo di pesca e quell’odore di neonato che… Mi fece impazzire. Lo stress per la missione appena finita, il dolore, la rabbia per aver visto che lei era andata avanti, che aveva un figlio, che stava in casa mia senza nessuna logica e che io non l’avevo affatto dimenticata mi fece diventare pazzo. Gridai, la cacciai, le dissi cose che avrei voluto cancellare un secondo dopo averle dette… eppure se ne stava lì a fissarmi, a lasciarmi sfogare, a subire tutte quelle pallottole verbali che mi uscivano a mitraglietta. Gli occhi le diventarono lucidi solo verso la fine delle mie accuse, ma non pianse. Mi fissò sorridendo, con l’espressione colpevole, confusa, malinconica, triste, delusa. Allo stesso tempo c’era una luce, che sembrava speranza. Imperterrita mi chiese di sedermi su quel dannato dondolo. Mi sorpresi di saperla leggere ancora così bene, dopo tutto quel tempo; non era per niente tranquilla come voleva mostrarsi.

«Ti sto pregando Edward, siediti al mio fianco. Ho ascoltato te, le tue accuse, le tue parole grosse. Ora per favore siediti qui e ascolta me. Poi se vorrai me ne andrò.»
«Vattene ora, così risparmiamo tempo.»
«SIEDITI QUI!» Scoppia d’un tratto urlando. Il bambino inizia a piangere e lei comincia a cullarlo e a mormorare una ninnananna dolcissima. Lo troverei tenero e amorevole se non fossi così fuori di me.


L’ascoltai e presi posto al suo fianco, su quel dondolo che ne aveva viste di tutti i colori fin dall’inizio della nostra storia. E ancora una volta fu testimone di qualcosa di magico.



«Hai ragione, non ti ho detto che non ti avrei aspettato. Ti ho lasciato mesi fa perché ero sicura di non riuscire ad aspettare il tuo ritorno, di non farcela. E per un attimo ci ho creduto talmente tanto che non mi sono pentita di averti detto quelle cose, di averti lasciato.» Mi guarda dritta negli occhi mentre parla. «Poi, però, un giorno successe qualcosa. E la mia vita prese ad andare avanti in modo veloce, come un aereo che cade in picchiata con il motore rotto.»
«Non fare paragoni-» Mi blocca con una mano.
«Non ti ho interrotto, ora tu non interrompere me.» Alzo le spalle, certo che quello che dirà non cambierà nulla. «Ho scoperto di aspettare lui…» Dice con voce chiara posando un ditino sul naso del piccolo.
«Ti sei ripresa in fretta!»
«Ho scoperto di essere incinta due settimane dopo che sei partito, sono andata a fare un esame del sangue di controllo prima di poter donare il sangue come faccio di solito. Hanno visto che c’erano dei valori sballati e mi hanno dato quella magnifica notizia. Ero incinta, di sei settimane.» Mormora alzando le sopracciglia e sorridendomi.
«Che?»
Mi passa il fagottino tra le braccia, non mi rendo neanche conto di stringerlo naturalmente, come se fossi nato per tenere quell’esserino tra le mie braccia muscolose. Le sue mani restano saldamente ancorate a me, per avere un contatto e credo per essere pronta nel caso in cui il bimbo scivolasse dalle mie braccia per lo shock. Con voce dolce come il miele mi sconvolge la vita.
«Bentornato a casa Edward, ti presento Emmett, tuo figlio.»


Scoppiai in lacrime e parlammo fino a perdere la voce. Non mi aveva contattato perché sapeva che sarei voluto tornare a casa, non mi aveva contattato perché sapeva che sarei stato arrabbiato con lei. Aveva una paura fottuta. Ma era certa che una volta tornato a casa non avrei mai potuto rifiutare mio figlio o rinunciare a un rapporto con lui, per niente al mondo. Mi conosceva bene, ha sempre saputo leggermi fino in fondo, cercare nei miei occhi una risposta ancora prima di farmi la domanda. È sempre stato così con lei, è sempre stato intenso e profondo il nostro rapporto.
Ero sempre emozionato quando mi trovavo su un aereo, attorno al nulla totale ma sopra a vastissime zone da sorvegliare, bombardare, proteggere. In aria mi sentivo un campione, mi sentivo importante, utile, mi sentivo potente, quasi invincibile. Sì, è un po’ da presuntuosi, ma devi crederci per salire ogni giorno dentro quell’aggeggio e spararti a velocità inaudite nel cielo. Mi sentivo potente per quelle popolazioni che ringraziavano i miei compagni di terra quando entravano nelle case per liberarli, mi sentivo invincibile quando riuscivo a portare il mio culo alla base e mi sentivo un grande quando mia moglie mi guardava orgogliosa dall’altro lato del divano. Era una bella sensazione. Ma era niente paragonato alla sensazione di avere tra le braccia mio figlio.
Passai tutta la sera e i giorni seguenti a coccolare Emmett, in ogni momento della giornata e venivo ripagato da smorfie buffe e baci amorevoli di Bella. Mio figlio, improvvisamente, era diventato il centro del mio mondo, avevamo una famiglia ed era tutto nuovo e bellissimo.
Ci sposammo dopo tre mesi, dopo aver chiesto scusa a vicenda, dopo aver riconosciuto mio figlio e avergli dato il mio cognome, dopo aver stretto tra le braccia il mio tesoro più grande, la mia famiglia, numerose e consecutive sere senza sentire il bisogno di lavorare. Ci sposammo in una chiesetta minuscola, con pochissimi invitati e con nostro figlio che pretendeva l’attenzione tutto il tempo, ma eravamo felici e niente era più importante di quel momento.
Poi ci fu un’altra missione e quando tornai per restare quasi un anno a casa, nacque Rosalie. Prese i miei capelli e il tic nervoso di passarsi le mani tra i riccioli morbidi, fin da piccola. Una bambina per la quale c’era solo da impazzire.
Da quel momento, però, la mia vita divenne un susseguirsi di eventi in parte catastrofici che rovinarono la quiete e l’equilibrio del nostro matrimonio. I bambini avevano la necessità di avermi al loro fianco, mia moglie anche, ma io non ero disposto a fermarmi, a rinunciare al mio lavoro e alle missioni per stare a casa. La novità del matrimonio, due figli e una casa da gestire iniziavano a diventare pesanti da sopportare; sentivo dentro la necessità di uscire sempre più spesso, telefonare ai miei compagni, offrirmi per dei lavori alla base e sentire se c’era bisogno di partire. L’adrenalina che sentivo quando volavo era unica, il momento in cui indossavo la mia tuta e allacciavo il casco insieme alle cinture di sicurezza del sedile di pilotaggio mi mancava. A mancarmi era anche il timore e la paura di quando accendevo i motori e partivo, rullando sulla pista per poi sfrecciare sferzando l’aria. Mi mancava la sensazione di guardare in basso e sentirmi potente, di destreggiarmi come un campione tra i rilievi montuosi… Ero un fottuto militare, sentivo di non aver ancora dato tutto. Dentro di me si muovevano strane sensazioni, le più forti sicuramente erano queste. Dall’altra parte, una piccola fetta di tutto ciò che mi ronzava dentro, era il senso di colpa. Nelle mie missioni avevo incontrato soldati che avrebbero pagato oro pur di tornare a casa e restarci per un po’, godendosi la famiglia e i figli che sentivano tramite skype o di cui ricevevano saltuariamente qualche lettera. Sapevo, dentro di me, che voler partire, desiderare ardentemente di allontanarmi da casa, era sbagliato e che non stavo apprezzando quello che avevo. Ero combattuto e irascibile. Quindi iniziarono le liti, i pianti, la disperazione di Emmett e gli occhi vitrei di mia moglie ogni volta che il telefono squillava. Avevano il terrore che mi convocassero e che dovessi partire, e quando loro piangevano e si arrabbiavano per questo motivo io gli gridavo contro che era il mio lavoro e che non potevano impedirmi di partire. Ero proprio uno stronzo. Non mi meritavo di avere una famiglia così affettuosa e bella come loro. Come se non bastasse il tumulto interiore che sentivo e due figli piccoli da gestire in quelle condizioni, Bella rimase incinta ancora una volta, nonostante la nostra vita sessuale fosse diventata scarna, quasi insapore. Nacque Alice otto mesi più tardi e fu il caos. Emmett aveva cinque anni e la piccola Rose solo tre. La base non mi chiamava, con la notizia della nuova arrivata a casa i miei superiori decisero di chiamare un altro pilota al posto mio, anche lui a casa da molto tempo.
I bambini crescevano ma non capivano ancora, ovviamente, che Bella aveva bisogno di tranquillità, di spazio, di tempo. Suo padre non poteva darle una mano e l’unica amica di cui mia moglie si fidasse era impegnata con il lavoro. Di conseguenza, nel momento in cui il generale mi chiamò, rinunciai a una missione, per il senso di dovere verso la mia famiglia.
Dopo solo qualche mese mi accorsi di come le cose iniziavano a starmi troppo strette. Diventai ancora più irascibile, cattivo, prepotente e facevo solo impaurire i miei figli. Si chiudevano in stanza, in silenzio e non si muovevano; quando c’ero io in una stanza mi stavano lontani, non mi rivolgevano la parola e tendevano a lanciarmi occhiate preoccupate ogni volta che mi avvicinavo. Non avevo mai alzato le mani su di loro, ma alzavo la voce e mi arrabbiavo sempre più spesso. A tavola non volava una mosca, non raccontavano più dei loro momenti all’asilo, né degli amichetti al parco. Niente. Ero diventato l’orco cattivo che li metteva in punizione e urlava con loro. Capii di essere stato un bastardo e un egoista di prima categoria, ma era ormai troppo tardi e Bella scoppiò mandandomi via, esasperata dal mio comportamento.



“Non ti sopporto più Edward. Non ti sopporto. Vattene! Vai in missione, prendi il tuo dannato aereo e vai via. I bambini hanno paura di te. Non prendi in braccio Alice neanche se piange durante la notte. Lasci che ti credano un pessimo padre e ti interessano solo le tue missioni. Io sono sfinita. Non posso lavorare e occuparmi dei bambini, della casa e anche dei tuoi cazzo di sbalzi d’umore. Hai scelto tu di stare a casa, nessuno ti ha obbligato, nessuno ti ha detto di fare qualcosa per noi. Abbiamo tre bambini Edward, tre splendidi tesori che vorrebbero solo essere amati e voluti dal loro padre. Sono tua moglie e mi tratti come se fossi una concubina. Se questo vuol dire averti a casa, vattene. Non voglio un uomo che sia cattivo. Non voglio un robot. Non voglio neanche doverti difendere con i bambini. Se quello che ti serve per stare bene è la missione, vai! Parti! Stai via tutto il tempo che serve e fai il tuo cazzo di lavoro! Ce la caviamo bene anche senza di te. Sparisci e schiarisciti le idee!”



Si chiuse in camera con i bambini e io mi fiondai nella camera adibita a biblioteca e ufficio e vi restai per tutta la notte. L’alba mi trovò sveglio e determinato, ma nel modo sbagliato. Presi il borsone e lo zaino e me ne andai. L’ennesima missione, questa volta cercata e voluta, l’ennesimo impiego che mi portava lontano da casa. Mi presentai alla base militare chiedendo di poter parlare al generale Milton, l’avevo convinto a farmi partire e mi ero beccato la ramanzina riguardo alla sicurezza e all’iterazione dei miei problemi con la mia concentrazione. Avevo pensato che mi facesse bene partire, che mi facesse pensare, che dopo solo tre mesi e mezzo avrei avuto le mie due settimane di licenza e sarei tornato a casa volentieri. Invece i giorni si susseguirono frenetici e preoccupanti anche per noi che eravamo laggiù e non ebbi il tempo di schiarirmi le idee. Ero a capo della mia squadra e dovevo portarli a casa tutti vivi. Le settimane diventarono mesi così lentamente che sembrava di non vedere mai l’alba del giorno dopo arrivare. Quando i miei superiori mi mandarono in licenza per due settimane non tornai a casa mia, raggiunsi i miei genitori in Florida perché a mio padre la malattia gli aveva strappato la speranza di una vecchiaia lunga e felice. Quando tornai in Iraq avevo quella sensazione di essere imbattibile che coglie chi si fa pervadere stupidamente dalla rabbia verso tutto e tutti, mi comportavo come se fossi il tipico stronzo prepotente e presuntuoso, i miei sottoposti mi guardavano con timore e in cielo ero pericoloso non solo per i miei compagni, anche per me stesso. I mesi si trasformarono in un tempo lunghissimo. La missione in Iraq durò in totale dieci mesi e mezzo, quando i miei superiori mi mandarono a casa e sostituirono la mia truppa non tornai a casa mia, avevo bisogno di riprendere in mano la mia vita e stare vicino a mia madre che da qualche giorno aveva perso il suo compagno di vita. Passai due lunghi e infiniti mesi accanto a lei, cercando di fare ordine in me stesso e di capire cosa stavo facendo. Chiamai Bella un paio di volte, telefonate fredde e distaccate, solo per farle sapere che stavo bene e che desideravo stare vicino a mia madre in quel momento. Non abbiamo mai avuto un vero rapporto, mio padre ci ha sempre tenuto a mantenere le distanze dalla famiglia che mi ero costruito, dalla vita che avevo scelto di percorrere. Era conscio, in qualche modo, che sarei riuscito a rovinare ogni cosa bella che si sarebbe posta sul mio cammino. Aveva ragione.
Bella, in qualche strano modo, capì la mia necessità o forse si era davvero stancata del mio egocentrismo e del mio lavoro, semplicemente.
Dopo il quarantacinquesimo giorno di vacanza, il Generale Milton mi chiamò, il capo del plotone che ci aveva sostituiti in Iraq era caduto in missione e serviva un sostituto che portasse a termine la missione, un colonello che sapesse il fatto suo in aria e che fosse capace di guidare a casa tutti quanti. Preparai il bagaglio e tre giorni dopo ero su un volo che mi riportava in Iraq per altri dodici difficili mesi. Non ci fu nessuna licenza, rifiutai di tornare a casa e restai concentrato sui miei obiettivi. I giorni sembravano sempre uguali, trascorrevano apparentemente lenti e infiniti quando dovevamo affrontare i pericoli nei cieli, ma quando ti trovavi di fronte al calendario alla base restavi sorpreso nel constatare che il termine di quella missione era sempre più vicino.

«Signore, si sente bene?» La donna seduta al mio fianco mi scuote il braccio mentre io mi affloscio su me stesso con la testa tra le mani. Annuisco debolmente e stringo quell’album di foto sospirando.

Ho perso ogni cosa di questi due lunghi anni. I compleanni dei bambini, di mia moglie; due Natali, due anni di scuola, due anni di vita e due anni di matrimonio. Ho perso tutto. Ma non me ne accorsi, o più probabilmente non lo consideravo davvero importante per me, fino a quando non arrivò un pacco indirizzato a me alla base militare. Era la prima volta, in due anni, che ricevevo posta. I miei compagni mi guardavano desolati ogni sera, quando si elencavano i colleghi che avevano una lettera, un pacchetto, ed io ero sempre l’unico a non avere nulla. Non ho mai detto loro di aver lasciato a casa una moglie e tre figli, non ho mai mostrato una più piccola debolezza, nessuno sapeva nulla del mio privato. Ripetutamente, ogni giorno di posta, tutti mi guardavano, mi lanciavano occhiate curiose, dispiaciute, come se davvero gli dispiacesse per me. Due anni di missione lontano da casa e mai nessuno aveva pensato di scrivermi. Il profumo di una lettera che puoi toccare, un pezzo di carta su cui sono state scritte con l’inchiostro parole d’amore e di speranza, di gioia, serenità, tristezza; quando sei lontano, tutto questo, ha un altro profumo, un altro sapore. È tutto diverso. È magico. Vedevo i miei sottoposti o i miei colleghi scartare con un sorriso soddisfatto ed emozionato quelle lettere, le conservavano con il cuore, come se fossero pezzi importanti, preziosi. E io, che non ricevevo nulla se non sguardi di compassione, li avevo sempre definiti dei deboli, inadatti a svolgere quel lavoro. Non capii mai quanto fossero importanti quei dannati pezzi di carta, fino a quella sera.
Erano tutti attorno a me, curiosi di scoprire il contenuto di quel pacco.
Scartai la mia posta nella sala comune, stupito io stesso.

«E così il boss non ha mai avuto posta ed ora si becca un pacco delle dimensioni di una cassa piena d’acqua potabile!»
«Ci sarà una bambola gonfiabile!» Scherzavano attorno a me, anche se ero un loro superiore.


Quando l’aprii ammutolirono tutti di colpo. Tirai fuori il primo disegno raffigurante un aereo verde con un omino dentro, in basso sul foglio una casa piccola, con quattro persone disegnate nel giardino e il nome di Alice dietro al disegno. Una nota era stata scritta in corsivo e in matita da Bella.

«Questa settimana ho spiegato a Alice che lavoro fa il suo papà. Orgogliosa e felice ti ha immaginato mentre ci saluti dal cielo. L’abbiamo disegnato a quattro mani, ovviamente, ma fai finta che sia solo suo, è davvero orgogliosa e testarda. Ti somiglia sempre di più.»

Le voci ricominciarono, sentii i ragazzi porsi qualche domanda, quelli nuovi più curiosi, i veterani, che con me avevano condiviso più missioni, si lasciavano andare con qualche sillaba. Il pacco era grande perché conteneva due anni di vita della mia famiglia. Disegni, fotografie, lettere, fotocopie delle pagelle dei più grandi, piccoli pezzetti importanti che non mi sarei mai voluto perdere.
E invece li avevo persi. Erano fumati via e io non ero lì, non ero presente.
Solo quella sera mi resi conto di quanto fossi stato lontano, di quanto fossi stato un estraneo per quella famiglia.
Risposi con una mail, emozionata e confusa, preso ancora dalla commozione per quell’inaspettato dono.

«Oggi è arrivato il vostro pacco. Grazie infinite. Non so come ringraziarvi per questo dono. Lo conserverò con cura e… mi dispiace di essermene andato, di essere stato via così tanto. Mi dispiace. Spero di tornare a casa presto. Mi mancate. Vi amo.»

A ripensarci non era stata una mail grandiosa, difatti non ho avuto risposta. Avrei potuto chiamare a casa, parlare con Bella e chiederle scusa, mi sentivo mortificato. Invece le scrissi solo quella dannata mail sconclusionata.
Lei non rispose neanche nelle settimane seguenti. Provai a scriverle diverse volte, quando la linea permetteva e non ero troppo stanco. Lei non rispose mai.
Nel frattempo la missione del mio plotone finì e io ero pronto per tornare a casa a chiedere scusa in ginocchio.
Non so cosa aspettarmi, non so cosa troverò, se li troverò, ma desidero con tutto il cuore che sia più semplice di quello che immagino, che possano perdonarmi, che non debba starmene in albergo perché non mi vogliono con loro.
Due maledetti anni. Sono stato via due anni.
Quante cose cambiano in due anni? Ho lasciato Alice a undici mesi e ora ha tre anni. Cammina, parla, corre, disegna.
La cosa che mi rammarico di più è di aver lasciato mia moglie da sola. La donna che ha sempre detto di non avere forza di aspettarmi e che ad ogni mio ritorno era lì, con le braccia aperte.
Questa volta non sono certo che sarà così. Questa volta la casa potrebbe essere vuota, fredda e triste.


Perso nei miei pensieri non mi accorgo del resto del volo, fino a che, finalmente, atterriamo. Non avrei mai pensato di dirlo. Mi affretto a scendere dall’aereo, a ritirare i bagagli e ad accendere il cellulare. Chiamo la base militare, confermando il mio arrivo e prendendo appuntamento per l’assemblea di rientro. Tutti gli altri compagni partiranno dopodomani con un volo militare, io avevo richiesto un biglietto privato per tornare a casa prima. Un paio di giorni non era nulla ai loro occhi, lo sapevo, ma ero talmente agitato che anche solo ventiquattro ore sarebbero state impossibili da passare lontano. Il generale Milton ha chiuso un occhio perché non avevo preso nessuna licenza durante la missione. Fuori dall’aeroporto chiamo un taxi che mi porta a casa.
La staccionata bianca è ancora al suo posto, l’erba ben tagliata e qua e là sono disseminati oggetti colorati che sembrano i giochi del nostro fidato Murphy. Il dondolo, ormai segnato dal maltempo e dagli anni, se ne sta ancora al suo posto sotto il portico. Mi avvicino alla porta d’ingresso e maledico silenziosamente la mia organizzazione penosa che mi ha fatto nascondere le chiavi sotto ai vestiti nel borsone. Suono, nonostante siano le nove di sera e i bambini possono dormire. Dall’interno, però, arrivano grida.

«Alice finiscila di frignare e mettiti a letto. Rosalie raccogli i giocattoli e mettili a posto e tu Emmett, per carità di Dio lavati i denti e poi scendi a finire i compiti!»
Suono ancora una volta ma proprio nell’attimo in cui pigio sul campanello una delle mie principesse scoppia a piangere e sento un frastuono provenire dal piano superiore.
«Basta! Finitela tutti e tre! Alice lascia immediatamente la bambola di Rosalie. Emmett fila di sotto.» Scampanello più volte e alla fine Bella risponde con un urlo che mi farebbe battere in ritirata se non fossi così ansioso di abbracciarla.
«ARRIVO! FINISCILA DI SUONARE, CHIUNQUE TU SIA!» Non posso fare altro che ridacchiare riconoscendo la sua forza, impertinenza e la sua boccaccia che amo.
«Dannazione ragazzi, mi avete sfinita! Quando torna vostro padre vedrò di farvi mettere in punizione a vita!» Un coro di no si leva dal piano superiore e, subito dopo, sento i passi di Bella scendere le scale. Viene ad aprire la porta, ma grazie alla catenella si apre solo uno spiraglio. «Merda!» Dice chiudendo di fretta e spalancando un secondo dopo la porta. «Che ci fai qui?» Scoppio a ridere per la sua faccia sbigottita e gli occhi lucidi, lascio cadere il borsone a terra insieme allo zaino e volo a prenderla tra le braccia.
«Dio, quanto mi sei mancata!» Si stringe al mio corpo, le sue mani mi spingono ancora di più verso di sé.
«Oh mio Dio! Sei qui! Sei qui!» Le sue dita si stringono sul giubbino, sento la pressione fin sulla pelle dalla forza che imprime, come se volesse fondersi con il mio corpo. Vorrei dirle milioni di cose, baciarla, stringerla, stenderla sul pavimento e fare l’amore con lei fino a svenire; l’unica cosa che mi riesce bene, invece, è baciarle il collo e strofinare il naso sulla sua pelle riempiendomi, in questo modo, i polmoni del suo meraviglioso profumo, tenendola stretta. Ho paura che possa scappare da me, che possa allontanarsi e allora non so se sarei in grado di respirare ancora. Non mi accorgo di nulla se non del suo corpo che morbido si appoggia al mio riscaldandomi il cuore. In quel momento urla di ogni sorta giungono attorno a me, sei braccine delicate si aggrappano alle mie gambe e mi stringono, due zampe mi spingono sulla schiena. Bella non parla, mi stringe e basta, come faccio io d’altro canto. Sento, però, il collo umido dove il suo viso si appoggia… piange.
«Papà!»
«Papà, sei tornato!»
«Papà!» Le tre vocine si sovrappongono, urlano e ripetono la stessa cosa un numero di volte imprecisato, lascio mia moglie per inginocchiarmi all’altezza dei miei tre puffetti. Mi si stringono al collo con forza e sento le loro lacrime bagnarmi la maglietta. Chiudo gli occhi e mi beo di tutto il fiume di sensazioni che mi si scaglia addosso con forza inaudita. È più forte di una ventata di aria fredda nell’inverno più torrido. Sento a turno i miei ragazzi baciarmi le guance più volte e in quell’esatto momento alzo gli occhi su Bella che tiene fermo Murphy e piange a dirotto. Le sorrido, temo che le sue lacrime non siano solo di gioia e che possa sbattermi fuori senza se e senza ma. Lei, sorprendentemente, ricambia il sorriso un po’ frastornata.
«Bambini fate respirare papà. Forza. Facciamolo sedere sul divano!» Prendo le mie cose e le adagio all’ingresso, chiudendo poi la porta e facendomi trascinare da tre manine e un cane scodinzolante verso il divano. Prendo Alice e Rosalie a sedere sulle mie gambe e Emmett si siede al mio fianco, gli scompiglio i capelli e gli lascio un bacio sulla testa, poi accarezzo i capelli delle mie principesse e bacio le loro guanciotte e i loro nasini. Tengo costantemente un braccio sulle spalle di Emmett, per non farlo allontanare e per chiuderli tutti e tre in un grande abbraccio condiviso. Quando partii, due anni fa, non avrei mai creduto potessero mancarmi così tanto, invece ora sono qui, con il petto che si sta aprendo da quanto dolore e emozione si agita all’interno.
«Siete diventate grandissime e bellissime!» Mi abbracciano stretto e Emmett posa il capo sul mio petto mormorando quanto gli sono mancato.
Bella si accomoda sul tavolino davanti a noi e sorride dolcemente, accarezza il nostro cane che scodinzola felice e leggo, nei suoi occhi, tutta la tristezza e l’amore che si è portata dietro in questo tempo. La mia donna forte e combattiva, mia moglie.
«È passato un sacco di tempo…» Mormora con voce debole ed emozionata.
«È riduttivo dire così. È passata un’infinità di tempo. Due lunghissimi anni.» La guardo, facendole capire che non ho intenzione di sorvolare sull’argomento, non temo il confronto e non ho intenzione di seppellire questi due anni come se non fossero esistiti. So quali sono i miei sbagli e sono pronto ad assumermene la responsabilità se vuol dire stare al loro fianco per sempre. Alice ha il colore dei miei occhi, ma sono grandi e luminosi come quelli della mamma. Mi scruta sorridente e orgogliosa, con due lacrimoni che continuano a scendere sulle guance, cerca di toccare più pelle possibile, mi chiede milioni di cose a cui rispondo tremante. Rosalie è ancora più bella che nelle foto, con i suoi capelli lunghi e il faccino birbante. Emmett, invece, non parla e si gode il semplice fatto che io sia qui. Lui è quello che ne ha risentito di più, ne sono certo; era grande abbastanza per capire quello che accadeva a casa, la tensione, il mio egoismo e la mia partenza. Li ho abbandonati per due anni. Quale padre si comporta così?
«Vuoi mangiare qualcosa? Hai sete? Posso…» Bella si alza e io le sorrido.
«Non voglio niente. Stai solo qui, davanti ai miei occhi.» Così che possa respirare ancora.
I bambini mi chiedono più volte le stesse cose, sovrapponendosi con le loro voci: dove sono stato, cos’è successo, perché non sono tornato prima, quanto resto a casa. Io chiedo scusa, ogni secondo, chiedo loro di perdonarmi per non essere tornato prima, per essere scappato. Lo faccio parlando ma anche tenendoli stretti, baciandoli, mantenendo il contatto. I loro corpicini mi riempiono il cuore d’amore e le loro voci permettono al cuore il ritmo normale. Pensavo di trovarli arrabbiati e furiosi, pensavo che Alice neanche mi riconoscesse e che avessero cercato di dimenticarmi e andare avanti comunque. Invece li ho ritrovati più innamorati che mai.
«La mamma ci ha raccontato tante cose, ci ha detto che ogni sera le mandavi una mail e le dicevi che ti mancavamo e che ci pensavi tanto. Ci ha detto che non potevi telefonare perché era un posto brutto e che i telefoni non prendevano. E poi sappiamo che ti ha mandato tutti i nostri disegni e anche le nostre fotografie. Papà ci sei mancato! Non andare più via!» Dice Emmett mentre si stringe ancora più forte a me; non posso fare a meno di voltare il capo verso mia moglie che mi lancia un’occhiata disperata.
Lei è la donna migliore che conosco, ora ne sono certo.
«Anche voi mi siete mancati! Tanto, tanto, tanto!» Sospiro a lungo, mi sento stanco e l’ora della nanna è passato da un pezzo per loro. «Che ne dite se andiamo a dormire? È tardi e sono davvero stanco!» Mi si stringono al corpo in un coro di protesta. Resto abbracciato a loro, godendomi il calore e l’affetto dei loro corpicini per un altro po’.
«Domani stai tutto il giorno con noi?» Chiede Emmett con la voce strozzata.
«Tuttissimo!» Bacio le loro tre testoline e mi alzo, tenendo tra le braccia solo Alice e accompagnandoli di sopra. «Non me ne vado più, promesso.»
«Ti preparo qualcosa da mangiare nel frattempo.» So che è solo perché si vuole tenere impegnata, non ho fame e lo sa bene che ho cenato durante il volo, ma non mi oppongo. Rimbocco le coperte a tutti e tre i miei angioletti e spengo la luce della loro camera, per il momento dormono ancora tutti assieme, ma provvederemo a sistemare la casa per avere più spazio. Adesso, però, è il momento di andare di sotto a fare i conti con i miei errori.
Bella sta girando qualcosa in una pentola, tiene lo sguardo fisso sul cibo senza voltarsi, anche se mi ha sentito arrivare. Mi avvicino stringendole le braccia attorno alla vita e immergendo il naso tra i suoi capelli. Pesca. Aria di casa.
Lei però si irrigidisce e mi scosta.
Come ho detto, devo fare i conti con i miei sbagli.
«Chiederò scusa anche in turco, camminerò sopra i ceci tostati e ti farò anche strappare i peli dal mio corpo se ti va, farò quello che vuoi ma per favore, perdonami.»
«Perdonarti? Per cosa?» Dice acida.
Oh Bella, amore mio!
«Perché sono uno stronzo di dimensioni epiche, perché sono un coglione, perché me ne sono andato e vi ho abbandonati… perché sono così deficiente da non avervi scritto, io vi ho abbandonati. Mi sono reso conto quanto sia stato stronzo solo quando quel pacco è arrivato. Tu mi avevi cacciato ma… mi sono accorto di cosa davvero era successo solo quando ho aperto quella scatola.»
«Dopo due anni!» Sbotta lanciando il cucchiaio nel lavello e producendo un suono stridulo. Si volta verso di me. «Due fottuti anni senza tue notizie, senza una cazzo di mail, senza una telefonata. Sono rimasta da sola Edward. Mi hai abbandonata ma soprattutto hai abbandonato i bambini! Ho fatto fatica a inventarmi qualcosa di bello quando volevo solo scagliarti giù da un burrone! Ogni volta che piangevano, che chiedevano di te, che dovevo assolutamente parlargli bene del loro papà perché nonostante tu fossi stato cattivo e intrattabile loro ti amano, io pensavo a come ucciderti!»
Cazzo.
«Sono qui, prendimi a pugni.» Dico ingoiando il magone che ho in gola.
«Dio, mi fai una rabbia.»
«Mi prenderei a pugni da solo se potessi.»
«Beh, se mio padre fosse in forze ti darebbe tanti di quei calci nel culo da rispedirti in Iraq.»
«Non voglio tornare in missione. Dopodomani devo andare alla base militare e mi congederanno. Niente più missioni. Posso decidere di svolgere incarichi alla base militare e tornare a casa ogni sera o posso scegliere di essere escluso completamente dall’esercito. Valuteremo insieme cosa fare da qui in poi.»
«Stai dicendo sul serio?» Mi guarda contrariata e titubante, ma gli occhi sono lucidi e brillano con il riflesso del neon della cucina.
«Guardami negli occhi.» I suoi occhi color cioccolata liquida si intrecciano ai miei. «Ti amo Bella. Ti amo da impazzire. Sono passati due anni ed ho cercato di dimenticare, di concentrarmi sul mio lavoro, di pensarvi con il contagocce perché faceva male. Sapevo che avevo sbagliato ma me ne sono reso conto forte e chiaro quando ho aperto quel pacco. Ho visto l’impatto delle conseguenze solo allora. Sono stato un egoista del cazzo, sono partito nonostante tutto e mi sono comportato da psicopatico quando ero qui.»
«Già, sei sicuro che non ricapiterà?»
«No! Non è possibile. Perché vi amo immensamente e perché siete tutto quello che voglio. Tutto Bella. Dovevo solo capirlo.»
«Non ti credo.» Scoppio a ridere, ero certo che l’avrebbe detto. Spegne il fuoco sul fornello e  incrocia le braccia sul petto guardandomi malamente. Mi inginocchio ai suoi piedi, le afferro i fianchi e la porto verso di me. Bacio il suo stomaco, le accarezzo il sedere e riesco a farla ridere quando mugolo di piacere nel riprendere confidenza con il suo corpo.
«Credimi. Perché voglio stare con voi. Per sempre. Voglio vivere la nostra vita, voglio godermi il nostro matrimonio e voglio amarti. Voglio vedere i bambini crescere e portare a spasso Murphy e voglio disperatamente un altro figlio. Un maschietto. Voglio svegliarmi di notte e cullarlo, starti vicino in sala parto, alzarmi alle tre di notte perché hai voglia di gelato. Voglio la nostra vita, quella che ho perso fino ad ora perché sono stato troppo stupido per accorgermi di avere qualcosa di meraviglioso. Ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo all’infinito.»
Mi stringe forte al suo corpo e le lacrime lasciano i suoi occhi per scendere sulle guance rosse, velocemente.
«Ti amo anche io.» Dimentichiamo la cena, per altro inutile; corro in camera da letto con Bella tra le braccia, chiudo la porta alle mie spalle e spero, in cuor mio, che i bambini siano troppo stanchi per svegliarsi. La spoglio di fretta e lei mormora parole poco comprensibili mentre cerca di spogliarmi e baciarmi con passione sfrenata.
«Sei bellissima, ancora più bella di quando me ne sono andato!»
«Non dire cazzate! Sono distrutta, troppo magra e stressata. Hai fatto tre figli indemoniati!»
«Li metteremo in riga. E ti farò mangiare. Sei troppo magra!» Non abbiamo mai parlato troppo durante il sesso, ma sono due cazzo di anni che siamo lontani, dobbiamo recuperare.
Noto i cambiamenti del suo corpo, la sua pancia piatta, senza un filo di ciccia, le sue gambe troppo esili e le braccia ugualmente scarne. Il seno resta all’interno di una mia mano, come prima della gravidanza. Il suo corpo cambiato grazie alla maternità mi manca parecchio. Adoravo stringerle i fianchi, morderle il seno e sentire le sue cosce stringermi mentre spingevo dentro di lei.
«Ti prego, mangia.» Scendo lungo il suo corpo, mordendo e leccando ogni singolo centimetro della sua pelle candida.
«Ti pare semplice? C’è sempre un disastro da sistemare, un bambino da controllare, una crisi da evitare. In più per mesi dopo che te ne sei andato ho fatto fatica a mettere qualcosa nello stomaco.» Le sue mani toccano le mie spalle, si fermano a controllare e tastare le mie nuove cicatrici, quelle che si è persa in questo periodo.
«Mi dispiace. Mi dispiace da morire.» Le bacio la pancia, le lecco l’ombelico e lei ansima di piacere. «Voglio farmi perdonare, voglio farmi amare da voi come se ci fossi sempre stato, non voglio più perdermi nulla.» Quando incontro il ciuffo di peli castano inspiro a fondo. Il suo profumo di donna mi è mancato infinitamente.
«Ci sono state altre donne mentre eri in missione?» La sua titubanza nel tono della voce è chiara e limpida per me. Alzo la testa di scatto e la fisso negli occhi.
«Mai.» Mi sporgo per baciarla sulla bocca e appoggiare la fronte sulla sua, reggendomi con le braccia sul suo corpo, per non pesarle. «Me ne sono andato e sono stato uno bastardo, ma non ti ho mai tradita. Mai. Mi credi?» Non avevo idea di come mi sarei sentito se la risposta fosse stata negativa. «Dimmi che mi credi.»
«Ti credo. Neanche io ho avuto nessuno. Il tizio del supermercato e il commercialista hanno tentato di invitarmi fuori a cena spesso, ma ho sempre rifiutato e non ho mai dato loro modo di pensare che fossi interessata.» Sapere che qualcuno ci aveva provato con mia moglie mi faceva infuriare. Divento pazzo e marco la mia proprietà: mordo, lecco, stringo e i suoi gemiti si fanno sempre più forti e controllarli diventa impossibile.
«La mia mano destra è stata la mia unica fonte di piacere per due anni. Quando ero sotto alla doccia pensavo a te che ti insaponavi o che ti piegavi per prendere qualcosa a terra e quel tuo culo favoloso sventolava davanti ai miei occhi. Altre volte immaginavo di trovarti al mio ritorno a casa con solo un completino di pizzo nero e tacchi vertiginosi ai piedi. Le seghe migliori sulla faccia della terra.» La faccio ridere mentre le mordo il fianco e scendo giù per assaggiarla.
Quando dopo due orgasmi, provocati grazie alla mia bocca, risalgo lungo il suo corpo e mi adagio su di lei mi sorride e stringe le mani dietro il mio collo.
«Mi sei mancato, Marines!» Era diventato, negli anni, il mio soprannome, non mi arrabbiavo più perché era una cosa speciale: un pezzo di passato che restava ancorato al presente e rendeva tutto particolare, emozionante, vero. Ci ricorda da dove siamo partiti e quanta strada abbiamo fatto insieme, è il nostro legame.
«Anche tu, piccola.» Entro dentro di lei con una spinta, leggero per non farle male e per non impazzire completamente. Chiudo gli occhi nonostante voglia perdermi nelle sue pupille color cioccolato. Le sensazioni, dopo due anni, sono troppo forti, amplificate, portate all’estremo. Non riesco a ragionare, il mio corpo si muove spinto solo dal desiderio di raggiungere l’estasi. Spingo, spingo, spingo fino a impazzire; sento le sue pareti stringersi a me e la sento contrarsi mentre io mi gonfio fino a esplodere dentro di lei. Ansimiamo, i respiri sono pesanti e le nostre dita sono intrecciate sopra le nostre teste. Non ricordo neppure come siamo riusciti ad afferrarci le mani e ad intrecciare le gambe, sentivo soltanto il suo corpo, i suoi seni premere sul mio petto e la sua bocca gemere nel mio orecchio. Era stato veloce, emozionante, potente.
«Non andartene mai più.»
«Non lo farò.»
«Se ti manca pilotare puoi sempre noleggiare un elicottero e portarci i bambini quando saranno più grandi. Gli piacerebbe, ne sono sicura.»
«Dici?»
«Ti amano, sono orgogliosi di te.»
«Solo grazie a te.» Non dice nulla, si stringe forte contro di me e bacia la mia pelle sudata. Poi dopo un po’ riprende a parlare.
«Non andartene mai più.»
«Te lo prometto.»
«Puoi comprarti una moto se vuoi sentire l’aria sulla pelle.»
«In aereo non senti l’aria addosso. Ti senti potente, puoi volteggiare, sorvolare vasti paesaggi e ammirare i colori dall’alto. Puoi proteggere. Puoi vincere la forza di gravità. È completamente un’altra cosa. Non senti l’aria.»
«Meglio, troppa aria potrebbe irritarti la pelle.» Scoppio a ridere seguito da lei. Poi mi ricordo cosa volevo disperatamente dirle.
«Nel volo di ritorno c’era un’hostess che ci ha provato disperatamente con me.» Le strizzo l’occhio sorridendo. «Ho chiesto un succo di frutta e lei mi ha detto che sono più tipo da tre dita di Whiskey!» Ride appoggiando la testa alla mia spalla, il suo corpo scosso dalle risate mi rende felice.
«Immagino che sia stato come un salto nel tempo.» Risponde con la voce ancora un po’ arrochita.
«È stato un modo per aprire la porta ai ricordi.» Le rispondo dolcemente, accarezzando il suo fianco nudo con la mia mano callosa e ruvida, la sua pelle delicata si ricopre di brividi. «Se ripenso a come tutto questo ha avuto inizio mi rendo conto che da ragazzo ero molto più sveglio, non facevo errori come andarmene lontano da te.»
«Ero io quella che scappava al tempo.»
«Ma sei tornata.» Mormoro baciandole la fronte.
«Anche tu.» Appoggia la sua mano delicata sul mio petto, dove il mio cuore batte ad un ritmo forsennato.
«Sai, non hai risposto alla mia lettera.» Dice alzando la testa e poggiando il mento sulla mia spalla. La guardo smarrito.
«Che lettera?»
«Quella dentro l’album di fotografie che ti ho mandato.» Stupito di non averla trovata e ansioso di leggerla infilo i boxer e scendo per le scale di corsa, dal mio borsone tiro fuori l’album e, in meno di tre minuti, sono di nuovo sotto le coperte del nostro letto con lei al mio fianco. Apro l’album di foto e scorro velocemente le pagine, ma della sua lettera non c’è traccia. Solo alla fine lei volta l’ultima pagina, quella completamente vuota e lì, nascosta dentro una strana tasca della copertina dell’album, fa bella mostra di sé una busta sigillata. La apro con le mani che tremano e lei cerca di strapparmela.
«Dovevi leggerla quando eri lontano.» Sbotta con le guance rosse.
«La leggo adesso, che differenza fa?»
«Ora sei qui, non voglio che ripercorriamo di nuovo quei momenti, voglio andare avanti.» Protesta pizzicandomi un fianco. «Voglio baciare la tua pelle, leccarti, sospirare nel tuo orecchio… Ehi!» Nonostante le sue parole ho aperto la busta e tirato fuori la lettera.



«Amore,
sei così lontano che sembri irraggiungibile. Quando ho sentito la tua voce al telefono mesi fa, mentre eri da tua madre, ho percepito con chiarezza il distacco che hai messo tra noi. Noi, la tua famiglia. Capisco quanto il tuo lavoro sia importante e capisco, realmente lo capisco, quanto quel periodo prima della tua partenza sia stato inaccettabile e stressante per un soldato come te. E ti ammiro per questa tua devozione e questo amore per il tuo lavoro, ma vorrei aver avuto la capacità di farti star bene a casa, di darti quello che ti mancava e di farti sentire importante come ti senti in aria con il tuo velivolo potente e veloce. Non ne sono stata capace ed ho finito per rendere tutto ancora peggiore per te. Pensavo che da un momento all’altro arrivasse a casa un avvocato con le tue disposizioni per il divorzio e mi sentivo di merda, piena di terrore, angosciata. Ma questo silenzio da parte tua è ancora peggio. La tua voce ha sempre avuto la capacità di rilassarmi, un tuo abbraccio sistemava ogni cosa e i tuoi occhi così profondi e limpidi mi hanno sempre mostrato un futuro insieme. Quando sono con te mi sento protetta, amata, forte e invincibile. Ora, guardo quel dondolo che orna il porticato di casa e mi chiedo se dovrò passare i miei anni futuri a cercare di dimenticarti. Mi sento così abbattuta, Edward, che faccio fatica anche a tenere in mano questa penna. Vorrei solo piangere e disperarmi a lungo, ma i bambini mi riempiono la vita e mi ricordano te ogni secondo della mia giornata, per fortuna. Vorrei tanto averti al mio fianco, sapere che ci sarai sempre a risolvere i problemi e avere la certezza di potermi appoggiare a te se qualcosa è troppo difficile. Invece, la notte vado a dormire stanca e desolata, in quel nostro letto freddo e vuoto; mi rannicchio di fianco alla tua parte fredda, con il tuo cuscino tra le braccia che ormai ha perso il profumo della tua pelle e mi chiedo se mi pensi, se ti manco… se mi ami ancora. So che come lettera fa schifo, sono emozioni confuse che fanno a pugni tra loro e vogliono disperatamente essere messe nero su bianco, chiedono solo di farti sapere quanto sto male e quanto vorrei averti qui. Chissà se un giorno tornerai. Probabilmente mi arrabbierò, ma ti perdonerei nell’arco di un battito di ciglia, perché la verità, amore mio, è che senza te non respiro.
Ti amo, per sempre tua,
Bella.»



Alzo gli occhi dal foglio di carta per poggiarli su mia moglie, piange ma non si allontana da me e non sposta gli occhi dal mio viso. I miei occhi sono colmi di lacrime e il cuore è sgretolato per l’ennesima volta dentro al mio petto. Solo lei è capace di rimetterlo a posto e il suo sguardo carico d’amore è la colla che riesce, pian piano, a ricostruirlo.
«Non è colpa tua, niente di ciò che è successo è colpa tua. Sono stato un cretino a non capire prima quali fossero per me le priorità. Ora lo so, si tratta solo di riorganizzare la mia vita e farmi perdonare da voi.»
«Te l’ho già detto Edward, sei già perdonato, ma non lasciarci mai più.»
«Mai.»
«So quanto è importante il tuo lavoro, ma quando sali su quell’aereo e voli via da me, da noi, ho paura che tu possa non ritornare più. Vorrei che ti bastasse stare qui con noi, che il tuo lavoro fosse più semplice, che amassi il mio profumo così tanto da non dovertene separare mai più.» La guardo negli occhi, come se potessi trovare la cosa giusta da dire dopo un’ammissione così da parte sua. Ma le parole giuste non riescono a trovare il percorso per uscire fuori, così la bacio a lungo, stringendola forte al mio fianco e accarezzandole il corpo, mostrandole quanto la amo con quei gesti.
Immagino una vita piena del profumo dei miei bambini, del rumore dei giocattoli che vengono sparsi ovunque per casa, le grida delle liti che poi, facilmente, si trasformeranno in pianti. Penso alle coccole sul divano che potrò fare ai miei figli, con Bella stretta a noi in un abbraccio caldo e immenso. Penso ai baci affettuosi che potrò donare ai miei tre angeli prima di andare a letto, alle favole da raccontare, le coperte da rimboccare. Penso a tutto quello che posso evitare di perdermi, quello che arricchirà la mia vita da questo momento in poi. Il profumo di Bella, quello della sua pelle quando faremo l’amore tutta la notte. Immagino come potrò sentirmi importante, utile e amato dentro questa casa e sorrido mentre la bacio.
Potrei volare nella mia zona diventando un addestratore, potrei anche entrare all’interno di qualche società privata di trasporto e stare fuori solo qualche giorno al mese per qualche consegna. Potrei anche cambiare vita e comprarmi davvero una motocicletta per sentire il brivido e l’adrenalina potente di avere un mezzo da controllare che sfreccia e fende l’aria inarrestabile. Non sarà come volare, ma può essere un’alternativa. Potrei fare qualsiasi altra cosa, non so cosa decideremo per il nostro futuro. Quello che so per certo è che voglio farlo qui, con la mia famiglia, a casa mia. Mi stacco dal bacio prendendole la testa con le mani e rotolando sopra di lei, pronto per una nuova avventura. La guardo negli occhi, prati verdi e fonduta di cioccolato si legano parlandosi.
«Amore mio, sono tornato e non parto più; sapere che mi hai perdonato e che mi ami così tanto è l’unica cosa che importa. Ti prometto che farò di tutto per renderti felice da qui in avanti. Ci ho messo un po’, ma finalmente l’ho capito. Senza di te al mio fianco non sono nulla. Non sono felice, non sono sereno, non sono concentrato, non sono l’uomo che dovrei essere. Mi sento soffocare. Tu invece… tu sei tutto, sei il mio ossigeno, la mia aria pulita e vitale. Te lo prometto, amore mio, niente più cieli a dividerci, piccola!»



The End

martedì 1 marzo 2016

Babbo Natale e l'Elfo Leccalecca

**Note di Aly

Rieccomi! Sono di poche parole stasera, spero che la storia vi piaccia e che vi faccia passare qualche ora in serenità. So che siamo un po' fuori tema, dato che parla del Natale, ma la storia ha partecipato, insieme alla OS "Regalo di Natale"
ad un contest di Natale indetto su FB dal solito gruppo di cui faccio parte.
Mi auguro che vi piaccia. Fatemi sapere!

Come sempre, buona lettura.
Buonanotte, Aly**



 




“Maledizione Jazz! Ho detto che non lo voglio fare!”
“Apri questa dannata porta o la butto giù con la forza! Andrai a fare ciò per cui sei stata assunta, fine dei giochi!”
La rabbia che ho dentro sta per esplodere. Apro la porta di scatto e fisso i miei occhi in quelli di mio fratello, entrambi furiosi.
“Mi hai fatta assumere tu, con l’inganno e la manipolazione. Quando ti ho chiesto di aiutarmi per superare questo momento difficile non intendevo buttarmici dentro a piene scarpe!”
Incrocia le braccia sul petto, mi guarda con quell’espressione di sfida e mi da le spalle un secondo dopo, sparendo lungo il corridoio.
“Vigliacco! Non mi rispondi neanche! Sei solo uno stronzo!” Nel momento in cui chiudo la bocca e lui si pietrifica a metà percorso tra la mia camera e la sua capisco di aver detto una stronzata. Sono stata una carogna. “Scusa. Sai che non volevo dire queste cose. Sono solo arrabbiata.” Dico a voce bassa, conscia che lui comunque mi sta ascoltando.
Chiudo gli occhi, sperando che questa maledetta giornata si concluda qui, o per lo meno sogno di potermi svegliare da un bruttissimo incubo e ritrovarmi a gennaio, senza possibilità di vivere il Natale.
Nel momento in cui apro gli occhi, però, Jasper è di fronte a me, furioso più di prima. Spaventata arretro di un passo, non l’ho neppure sentito avvicinarsi.
“Sai che c’è Bella? Sono stanco! Sono un vigliacco e uno stronzo per te? E tu che cosa sei allora? Tu che ti nascondi dentro questa camera che puzza di chiuso, che non metti un piede fuori di casa, che non parli neanche più con quelli che per te sono gli amici di una vita. Tu cosa sei?” Mi punta un dito sulla spalla e mi spinge indietro, facendomi arretrare in camera mia con sguardo furente. “Ho aperto la porta di casa mia a una sorella, hai lasciato l’università, hai lasciato che tutta questa merda ti sommergesse ed ora ti stai annientando.  Hai sempre amato questo periodo dell’anno, chiedevi a mamma di fare l’albero di Natale due mesi prima del tempo, stavi ore a fissare quelle dannate luci. Ed ora non puoi fare l’elfo di Babbo Natale per dei bambini?”
Scuoto la testa senza fiato.
“Beh lo farai lo stesso. Mi sono sempre preso cura di te, non ho avuto remore ad accettarti a casa mia, ho scombussolato il mio matrimonio per te e ricordo che quando ti avvisai che Eric non era quello giusto, tu mi rispondesti che erano cazzi tuoi e che non avrei dovuto metterci il naso. Ora però sei qui. Mi hai chiesto aiuto. Ho sopportato un anno i tuoi piagnistei e la tua depressione. Adesso ti rimbocchi le maniche e prendi in mano la tua vita. O ti sbatto fuori a calci in culo!”
Annichilita mi siedo sul letto sospirando, mentre Jasper esce dalla mia camera sbattendo la porta. Sento i suoi passi furiosi scendere le scale e poi mi avvolge il silenzio.
Sapevo già di aver detto le cose sbagliate, quando mi incazzo parlo a vanvera senza rendermi conto subito del pasticcio che creo. Eppure gli ho chiesto scusa, io che faccio fatica a dire “mi dispiace” anche quando vado a sbattere contro le altre persone al supermercato. Lo sa quanto mi sono costate quelle scuse ma non gliene è fregato nulla. D’altro canto sono stata proprio una stronza. Lui ha fatto il massimo per me, mi ha accolta in casa sua, ha riesumato questa piccola camera e me l’ha donata, ha litigato con Alice più volte a causa mia e spesso e volentieri ha perso tempo dietro a me piuttosto che passare qualche ora con la sua bimba.
Ma sono furiosa e parlo senza pensare.
È che proprio il Natale non posso sopportarlo. Succede sempre qualcosa che… rovina tutto, durante le feste. Tre anni fa, ad esempio, poco prima della vigilia di Natale mio padre è stato salvato per miracolo da un infarto. L’anno seguente l’azienda che mi aveva assunta come impiegata part-time sei mesi prima, mi ha licenziata per tagli al personale. L’anno scorso ho beccato il mio fidanzato a letto con due bionde, in una scena che non mi toglierò mai dalla mente. Il Natale fa schifo.
E proprio mio fratello, colui che dovrebbe capirmi fino in fondo e che dovrebbe proteggermi, scherza con me in questo modo: procurandomi un lavoro come elfo di Babbo Natale al villaggio costruito per dei bambini. Il clima festaiolo e allegro, le luci, i bastoncini di zucchero, il vestito da elfo… sarà tutto tremendo per me.


Trascino i piedi avanzando lungo il corridoio, svogliata entro nella palestra dove il gruppo sta facendo un meeting prima di spiegare ad ognuno il proprio lavoro. Mi appoggio alla parete con una spalla senza muovermi né farmi notare. Ascolto senza grande interesse ciò che l’organizzatrice dice, ogni tanto faccio vagare lo sguardo su quelli che, fino all’inizio di gennaio saranno i miei colleghi.
“Bene, ho detto tutto ciò che dovevate sapere. Ora passiamo alle cose specifiche.” Rosalie inizia a spiegare efficientemente a ognuno dei presenti ciò che dovrà fare, mostra loro il vestito da indossare e risponde alle loro domande. Tutti sembrano entusiasti, felici, soddisfatti di poter dare una mano. Io invece me ne resto in silenzio.
“Dovrebbe esserci anche un altro elfo, Leccalecca. Ossia, Bella Swan…” Rosalie guarda un po’ in giro e quando mi nota gli si illumina il volto. “Eccoti. Che ci fai lì? Vieni avanti. Ti presento gli altri!” Scuoto la testa e lei annuisce prendendo il mio costume dalla gruccia e mostrandomelo. “Questo è per te. Alice mi ha aiutato con alcune modifiche. Jasper mi ha detto che adori i bambini e che qualche anno fa hai fatto volontariato in un asilo per bambini speciali. Così ti ho assegnato un lavoro favoloso. Sarai la spalla di Babbo Natale. Farai accomodare i bambini, qualche foto di rito, e cose così. Vedrai ti divertirai!” Tutti si voltano verso di me e faccio un cenno debole con la mano per togliermi dall’imbarazzo. Non volevo venirci qui.
Annuisco per far smettere tutti quei fari puntati su di me e finalmente, dopo qualche secondo, Rosalie riprende a dare le ultime indicazioni. Mi sento osservata e, facendo finta di muovere il mio sguardo indifferentemente lungo tutto il perimetro della palestra, cerco da dove arriva quella sensazione. Un ragazzo, uno con dei capelli strani e spettinati mi osserva curioso. Distolgo lo sguardo velocemente, ignorando Rosalie ancora una volta e continuando a guardarmi attorno, come se fossi davvero attratta da ciò che mi circonda. Tecniche di sviamento mode on.
Quando le persone iniziano a lasciare la palestra e mi fanno un debole saluto decido che è il momento di andarmene. Mi sono fatta vedere, ho ascoltato abbastanza e Jasper non avrà niente da ridire. Invece Rosalie mi ferma, chiamando a voce alta il mio nome che rimbomba nello spazio ampio e vuoto della palestra.
La raggiungo, malvolentieri, e le sorrido fintamente mostrandole quell’interesse che non ho ma che lei vorrebbe vedere.
“Bella, ci conosciamo da sempre, non fingere con me. Se vuoi mandarmi al diavolo, se ce l’hai con tuo fratello perché ti ha messa in mezzo a tutto questo non hai che da dirlo. Purtroppo però non te ne andrai, perché ci servi e perché sono fermamente convinta che questa esperienza ti servirà. Quindi per prima cosa sii sincera con me. Togliti quell’espressione dalla faccia e parliamo insieme di cosa ti sta succedendo!”
Stupita le parole non mi escono dalla bocca. È vero che Rosalie mi conosce bene, ma non sapevo quanto fino ad ora.
“Non ho voglia di parlare con nessuno.”
“Questo atteggiamento da ribelle andava bene a sedici anni. Sei adulta, la vita ti mette di fronte alcuni ostacoli e li devi superare. Non puoi sempre-” Le giro le spalle e mi muovo per andarmene. Non ho bisogno di ascoltare di nuovo le stesse raccomandazioni di mio fratello, mia cognata e i miei genitori. Non è quello di cui ho bisogno ora. “Dove stai andando?”
“Ci vediamo Rosalie!”
“NO! Tu ora ti giri e mi stai ad ascoltare!” Il tono determinato della sua voce mi blocca per qualche secondo, mi volto a guardarla brevemente e, non lo so cosa legge nei miei occhi, lei si zittisce e mi lascia andare. Quando raggiungo l’esterno della palestra respiro a pieni polmoni.
“Questa rabbia repressa non farà altro che farti cadere i capelli, farti venire le rughe e rovinarti prima dei tuoi trent’anni.”
Un’altra raccomandazione, un’altra osservazione, una voce che non conosco. Mi volto per sapere con chi ho a che fare. Due fari verdi mi osservano, un’espressione interessata, curiosa e tenera sul volto: il ragazzo curioso di prima.
“Vi mettete tutti a farmi la predica, non sapete nulla. Statevene per i fatti vostri e non consideratemi!”
“Sarà impossibile. Sei la mia spalla destra, Leccalecca!” Allunga la mano verso di me. “Sono Babbo Natale. Lavoreremo insieme per le prossime settimane. È un piacere conoscerti!”
“Solo tuo!” Snobbo la sua mano e me ne vado.
La sera a casa di mio fratello è insopportabile. Alice tenta di rivolgermi la parola, di farmi interagire con loro al tavolo, ma Jasper non mi parla e io non ho voglia di comunicare. La mia nipotina, nonostante sia piccola e ingenua, capisce che tra me e suo papà non corre buon sangue ultimamente e non è più allegra come al solito. Quando comprendo di aver rovinato l’ennesima cena di famiglia mi ritiro in camera, mormoro le solite frasi di circostanza e mi chiudo dentro. Questa situazione non può continuare così.

Alle sette e mezzo sono già al villaggio di Babbo Natale, alcuni dei miei futuri colleghi stanno sistemando le decorazioni, montano le casette di legno decorate, posizionano la neve finta. Il freddo mi penetra nelle ossa e ringrazio di essermi vestita pesantemente o sarei morta congelata. Gli scarponcini imbottiti mi permettono di mantenere i piedi caldi, ma le mani sono congelate perché non ho messo i guanti.
Rosalie mi invita, con gesti frenetici delle mani, ad avanzare verso di loro e ad aiutarli.
Lavorare mi scalda, mi permette di non pensare e di tenere a freno la voglia di rintanarmi sotto le coperte. Verso le dieci e mezzo, quando ormai il villaggio sta prendendo pienamente forma e le cose da fare sono dimezzate, Babbo Natale ci delizia della sua presenza. Indossa un cappotto in lana cotta con una sciarpa al collo e un cappellino di lana, jeans sbiaditi e scarponcini. In una mano porta una fila di bicchieri e nell’altra un grande thermos.
“Oh guardate, sono arrivati i rinforzi!” Una ragazza, che ho scoperto chiamarsi Tracy, lo prende in giro e poi ridacchia stupidamente facendosi avanti per prima verso di lui. Lo saluta con un caloroso abbraccio e un bacio sulla guancia e gli mormora qualcosa all’orecchio che immagino sia indecente. Lui scuote il capo ridendo e appoggia il thermos e i bicchieri su un tavolino.
“Buongiorno a tutti! Ho portato cioccolata calda. Spero che l’apprezziate e mi perdoniate per essere arrivato così tardi!”
“Se continui a far baldoria tutte le sere è normale svegliarsi tardi!”
“Emmett, piantala!” Ridendo Rosalie picchia il braccio dell’omone al suo fianco. “Grazie del pensiero, è davvero freddo stamattina!” Tutti si avvicinano al tavolo e chiacchierano allegramente. Guardo la scena da lontano e li invidio. Si conoscono tutti, e anche chi non è del gruppo si integra facilmente. Hanno tutti voglia di sorridere, chiacchierare, conoscersi. Questa è la differenza tra me e loro. Mi sento cupa, triste, sola e non so come uscirne. Non è facile riprendere i contatti e socializzare quando sono secoli che non esco dalla mia camera a casa di Jasper. Volto le spalle a quella scena e continuo a trasportare le decorazioni e a sistemarle al loro posto. Non so quanto tempo passa, le voci degli altri si sovrastano una con l’altra, sono ancora tutti attorno a quel tavolo a fare una pausa e a chiacchierare allegramente. Loro sentono potente lo spirito di festa, lo spirito del Natale, amano la compagnia, sono felici di aiutare e di portare un po’ di gioia ai bambini. Anche io vorrei sentirmi come loro, invece sono solo arrabbiata con il mondo e sola.
Qualcuno si schiarisce la voce al mio fianco.
“Ho pensato che volessi scaldarti anche tu.” Il tizio carino e spettinato mi porge un bicchiere fumante. Lo guardo dubbiosa se accettare quella bevanda o rintanarmi nella mia solitudine. “È solo una cioccolata. Ti riscalderà e ti integrerà quegli zuccheri che hai perso da stamattina fino ad ora. Forza avanti.” Allungo la mano e la prendo. Il calore del bicchiere si sprigiona tra le mie dita ghiacciate, scaldandole. Milioni di punture mi infastidiscono le mani ma il tepore è meraviglioso. Lo avvicino con entrambe le mani al volto, il vapore mi scalda il naso, le labbra e la fronte.
“Grazie.” Mormoro debolmente.
“Alla fine ti sei presentata. Ieri abbiamo scommesso che non ti saresti fatta vedere e che dovessimo prendere qualcun'altra per la parte di Leccalecca.” Alzo gli occhi stupita.
“Davvero?”
“Sì. Ha vinto tutto Rosalie, noi abbiamo perso.”
“Avete fatto una scommessa su di me?” Alza le spalle mentre sposta lo sguardo su quello che stavo facendo.
“Sì, te ne sei stata distante tutto il tempo ieri, non hai mostrato il minimo interesse, hai voltato le spalle a Rosalie e sei fuggita via peggio di Flash. Abbiamo pensato che avessi rinunciato.”
Mi esce un debole sibilo dalle labbra. Hanno fatto una scommessa su di me. Lancio un’occhiata a tutte le persone ancora strette attorno a quel tavolo e mi demoralizzo ancora di più. Hanno pensato che avrei mollato. È questo che pensano le persone appena mi vedono: sono una debole, una che molla, una che non mantiene gli impegni.
“Fantastico. Ora capisco perché stamattina molti non mi hanno rivolto la parola!” Bevo senza pensarci e la cioccolata calda mi brucia la lingua. Ottimo, non sentirò nessun sapore fino a domani!
“È solo un modo per… scherzare, credo. Non devi prendertela. Diciamo, però, che non hai fatto molto per renderti socievole.”
“Non amo stare in compagnia, ultimamente.”
“Lo so. Jasper si è confidato anche con me.”
“Bene! A chi non ha detto niente il mio caro fratellino? Così tanto per sapere chi verrà a dirmi la prossima volta che mio fratello gli ha spifferato qualcosa! Ormai lo sanno tutti.” Sbuffo e cerco di scottarmi ancora una volta la lingua, per punirmi di aver dato fiato alla bocca.
“Tuo fratello ti adora. Vuole solo che ti riprendi e che vai avanti con la tua vita. Sei brava con le decorazioni!”
“Vuole solo che me ne vado da casa sua. Toglierò il disturbo quanto prima.” Bevo un altro sorso di cioccolata, poi l’appoggio sul tavolino alla mia sinistra e prendo il pennarello per terminare il disegno. Mancava di originalità la decorazione e Rosalie ha detto che eravamo liberi di modificarle a nostro piacimento.
“Sei brava a disegnare.”
Chiusa nel mio mutismo continuo a aggiungere particolari, sotto lo sguardo curioso del tipo al mio fianco.
“Ho capito che non sei una di molte parole, ma quando qualcuno cerca di interagire con te è buona educazione rispondere. Porca miseria, mi domando chi me l’abbia fatto fare. Sono un cretino.” Si allontana a passo svelto e mi lascia da sola, ancora una volta. No, la cretina sono io.
Piano, piano le persone iniziano ad abbandonare il villaggio e ad andarsene a pranzo. Io non ho intenzione di andare a casa di Jasper, per cui resto a lavorare. Rosalie, dopo aver visto le aggiunte alle decorazioni, mi ha dato carta bianca: posso modificare ogni decorazione e disegnare qualcosa che mi piaccia in ognuna di essa. Mentre non c’è nessuno, quindi, prendo in mano il pennarello, il pennello e le tempere e aggiungo, qui e là, qualcosa che mi piace. Senza rendermene conto smetto di utilizzare colori cupi e mi abbono al rosso, giallo, bianco e blu. Qualche punta di oro non manca mai. Alle tre le persone del gruppo cominciano ad arrivare e lo sguardo di ognuno di essi alla vista dei miei disegni è fenomenale. Stupiti e sinceramente colpiti mi sorridono e si complimentano con me. Imbarazzata cerco di defilarmi, di isolarmi ma Rosalie non me lo permette. Mi stringe in un abbraccio caloroso e mi sorride.
“Piccoli passi, Bella. Piccoli passi.”
Lascio che gli altri sistemino alcune decorazioni mentre mi prendo una pausa e mangio il mio pacchetto di cracker. Guardarli lavorare in sintonia mentre intonano una canzoncina di Natale dopo l’altra mi scalda, è come se sciogliessero parte del ghiaccio che ho dentro.
“Dai Bella, canta anche tu!” Si avvicina Lizzie, una ragazza molto dolce che avevo già incontrato all’Università e che ha sempre buone parole per tutti. Scuoto la testa ma riprendo a lavorare con uno strano sorriso sul volto.
Quando arrivo a casa, ben oltre l’orario di cena, mi dirigo in camera senza dire niente. Jasper mi lancia un’occhiataccia, mentre Alice mi sorride appena.
La mattina dopo mi sveglio volentieri, faccio colazione con dei pancake e del caffè e lascio in caldo alcune cialde per chi si sveglierà dopo. Alle sette e mezzo sono di nuovo al villaggio. Rosalie indossa un cappellino rosso intrecciato, abbinato a una sciarpa verde. Scoppio a ridere mentre viene presa in giro da Emmett. La mattina prosegue meglio, riesco a parlare con alcuni dei miei colleghi, a intonare qualche nota di Jingle Bells e, con mio sommo stupore, vengo invitata a pranzo nella caffetteria dall’altra parte della strada da alcuni di loro.
Alle dieci arriva il ragazzo carino, anche stavolta con della cioccolata calda. Ma non scappa subito come ieri, resta ad aiutare fino a mezzogiorno. Non mi rivolge la parola però. Dispiaciuta non accetto la cioccolata calda, né mi avvicino a tutti gli altri per chiacchierare come abbiamo fatto stamattina, resto in disparte a montare la staccionata.
Il villaggio ormai è quasi terminato, torno a casa per cena, anche se non ho molta fame, ma Rosalie mi ha obbligata.
“Oh Bella, sei tornata. Stasera ho preparato una torta di zucca fenomenale. Ho assaggiato la crema e penso che Jasper si leccherà le dita! Ti va di… aiutarmi a tagliare l’arrosto?”
“Certo.” Stupita anche lei della mia risposta cede il coltello e il forchettone a me, si allontana per ultimare la torta di zucca e mettere la piccola sul seggiolone. Quando Jasper entra in cucina mi irrigidisco e gli volto le spalle servendo ad ognuno un pezzo di arrosto e un po’ di sughetto che ha preparato insieme alle verdure, poi mi siedo a mangiare guardando il mio piatto e ignorando gli altri seduti al tavolo.
Loro parlano, la piccola borbotta e gridacchia festosa, Alice cerca di farmi qualche domanda a cui rispondo laconicamente. Jasper invece mi ignora.
Quando arrivo al villaggio di Babbo Natale il giorno dopo, sempre alle sette e mezzo, non c’è nessuno. Tiro fuori i colori che mi servono e inizio a decorare la staccionata bianca attorno al piccolo giardino. Solo verso le nove iniziano ad arrivare alcuni del gruppo, mi salutano, si complimentano per i miei disegni e portano a termine le ultime cose. Stamattina niente cioccolata calda per scaldarci, né il tipo carino con cui rifarsi gli occhi.
“Allora Bella, da stasera si comincia! Oggi facciamo le prove e decidiamo alcune attività per i bambini. Come ti senti?”
“Bene. Dopo tanto lavoro i bambini possono godere di questo posto. È magnifico.”
“Sì, pensa che tra un paio d’ore arrivano a montare la pista per il pattinaggio. Si divertiranno un mondo!”
“Mi divertirei anche io, se fossi una bambina!”
“Fantastico! E Jasper, come sta?”
“Bene.” La mia risposta deve metterla in allerta perché inizia a sondare il terreno.
“È felice che tu venga a lavorare qui?”
“Non lo so, credo di sì dato che è stato lui a insistere.”
“Ma ora sei felice. No?”
“Felice è una parola grossa. Diciamo che non mi sento più schifata come all’inizio!” Si lascia andare a una risatina e poi colpisce il problema.
“Non ti parla, vero?”
“Già. Abbiamo alzato i toni, sono stata sgarbata e ora si rifiuta di rivolgermi la parola.”
“Magari se tu gli dicessi grazie, forse risolveresti qualcosa. È un fratello premuroso e gentile, passa ogni tanto a controllarti da quando abbiamo iniziato. Se ne sta dietro un albero pensando che nessuno lo veda. L’abbiamo già beccato in cinque! Vuole solo vederti felice.” Questa notizia mi sciocca. Mi guardo attorno ma non vedo nessuno e quando ritorno con lo sguardo al mio lavoro, Rosalie è già sparita. Perché allora Jasper non mi ha rivolto la parola in questi giorni? Perché non ha fatto lui un primo passo? Perché non mi ha chiesto neanche se sto bene? Se davvero vuole vedermi felice, se davvero passa a controllarmi… perché non chiedermi nulla quando torna a casa?
Il tempo delle prove, della recita e degli accordi passa in un lampo, trovandomi completamente distratta dal pensiero di Jasper. Babbo Natale non si è fatto vedere, anche se l’ha sostituito Emmett in modo che io potessi esercitarmi al meglio. Nel tornare a casa fremo, impaziente di parlare con mio fratello. Lo trovo seduto al tavolo con un numero imprecisato di fogli davanti a sé, una calcolatrice e le mani tra i capelli.
“Ciao.” Mormoro prendendo posto accanto a lui. “Avevi ragione, mi serviva davvero uscire di casa, incontrare persone, rendermi utile e fare qualcosa. Questo non vuol dire che mi piaccia il Natale, ma sono felice che tu sappia sempre cosa è meglio per me, anche quando io non me ne rendo conto. Mi dispiace di aver urlato l’altro giorno e di essere stata un peso in questi mesi. Ma ti ringrazio perché senza di te, probabilmente, non ce l’avrei mai fatta.”
Incrocia le braccia sul petto e alza gli occhi sui miei.
“Non sei un peso. Alice è contenta di averti qui con noi, mia figlia ti adora, io sono felice di vederti girare per casa… tutto questo quando hai una giornata buona e sorridi. Questa è la famiglia Bella, prendersi cura l’uno dell’altra. Mamma e papà probabilmente non avrebbero fatto in modo di spronarti, farti reagire e riprendere in mano la tua vita, io sì, ma questo non vuol dire che desidero ardentemente che tu vada via. Voglio solo che i giorni felici siano maggiori di quelli tristi.”
“Lo capisco.”
“Bene… allora vuol dire che hai già fatto un passo in quella direzione. È quasi Natale Bella, a te non piace da un po’ di tempo, ma quando eri piccola iniziavi a decorare la tua cameretta dal primo di dicembre. Hai sempre adorato stare a guardare l’albero e le luci che si riflettevano nel salotto. Abbiamo sempre adorato il Natale, stare in famiglia e goderci l’affetto delle persone accanto a noi. Rendi questo Natale la tua svolta… per me e per te.”
“Ci proverò.” Prometto guardandolo negli occhi.
“Bene. Come ti trovi con il gruppo?”
“Bene. Sono tutti molto gentili e carini. Alcuni più simpatici di altri, alcuni misteriosi!” Ammetto pensando al Babbo Natale che da domani lavorerà con me. “Emmett e Rosalie insieme formano una coppia stupenda, pensare che sono una coppia nella vita mi fa immaginare spesso e volentieri le giornate a casa loro. Immagino sia da spanciarsi dalle risate!”
“Li conosco da una vita, li ho visti crescere e li ho visti battibeccare dal momento in cui si sono conosciuti. Hanno avuto alti e bassi… poi sono finiti a letto insieme e sono stati inseparabili. Sono due persone molto speciali. Hai conosciuto anche Edward?” Quel nome mi sfugge, non so chi sia dei tanti che ho conosciuto. Lo sguardo confuso che ho gli da qualche indizio su quello che mi sta passando per la testa. “Dovrebbe essere il Babbo Natale.”
“Ah già. Sì l’ho conosciuto, più o meno. Non si è fatto vedere molto né all’allestimento, né alle prove di oggi. Sinceramente non so neppure perché Rosalie l’abbia nominato Babbo Natale, dovrebbe essere il perno di tutto l’ambaradan, eppure ci ha portato la cioccolata calda per due mattine e stop, non si è più visto!”
Mio fratello prende un sorso di caffè e annuisce.
“È cuoco in un albergo, ha avuto un momento di crisi al lavoro, il suo capo è un dittatore pazzesco, di quelli che appena li vedi scapperesti a gambe levate. Lavora lì da sei anni ed è lo chef che è resistito più a lungo. Ora è stanco di lavorare per lui, ma ha bisogno di mantenersi, per cui Rosalie gli ha offerto l’opportunità di fare altro, per un po’. Si prenderà un mese di ferie. Il direttore dell’albergo gliele ha concesse, comprendendo a pieno la sua necessità di fare una pausa, piuttosto che licenziarsi.”
Annuisco e fisso le carte sul tavolo, le indico con la testa guardando mio fratello.
“Conti, conti, conti. Nulla di preoccupante comunque. Hai mangiato?”
“Mi faccio un tea caldo e mi infilo sotto le coperte.” Lo lascio alle sue carte e dopo aver messo l’acqua calda nella mia tazza preferita scappo in camera mia.
Il giorno dopo si comincia nel primo pomeriggio, la sceneggiatura tutta montata, i ritocchi sono stati apportati e una piccola casetta bianca nello sfondo del villaggio di Babbo Natale è a disposizione del gruppo per fare una pausa o riporre le proprie cose. Quando arrivo, già vestita da elfo, Rosalie mi sorride e si sposta per mostrarmi Babbo Natale. È seduto su una sediolina all’interno della casetta bianca per noi, si sta allacciando gli scarponi neri e quando alza il volto verso di me scopro gli occhi sorridenti.
“Ma che bell’elfo!” gli sorrido e mi avvicino con la mano tesa.
“Sono Bella!”
“Edward!” Mi sorride tirandosi giù la barba. “Finalmente ce l’abbiamo fatta!” Sorrido e alzo le spalle. “C’è della cioccolata calda in quel thermos, se ne vuoi un po’ prima di iniziare il pomeriggio al freddo.” Annuisco e ne prendo un bicchiere bello pieno, lo sorseggio dopo averci soffiato sopra parecchio. Rosalie ci da le ultime indicazioni e poi ci lascia da soli, tra poco si va in scena.
“Allora, trovi più emozionante questo lavoretto da quando ti sei presentata in palestra giorni fa?”
“Sì, abbastanza. Ho smussato gli angoli che mi facevano litigare con mio fratello ed ora sono addirittura felice di far parte di questa grande macchina.”
“Però il Natale ancora non ti piace.”
“No, è un periodo dell’anno che mi ricorda brutte cose.” Arriccio il naso e lui annuisce. Fa un giro su sé stesso e con sguardo interrogativo, senza parlare, mi chiede come sta. “Sembra cucito su misura per te, stai bene vestito così!” Ridacchia e poi modula la voce per farla sembrare più anziana e profonda. Facendo qualche prova riesce a farmi ridere, così tanto che per poco non mi rovescio la cioccolata sul vestito.
“Andiamo, prima che cominci a fare danni!” Usciamo dalla casetta insieme e Rosalie sta intrattenendo una decina di bambini di fronte alla cancellata, i genitori guardano il villaggio con ammirazione e stupore. Sono fiera di averne fatto parte, lo ammetto.
“Sei brava con i bambini?” Sussurra Edward al mio fianco.
“Dicono di sì, anche se qualche anno di babysitteraggio non basta come curriculum! E tu?”
“Dovremmo chiederlo a mio figlio per esserne sicuri!” Ride modulando la voce perché i bambini potrebbero sentirci, ma io sono pietrificata lungo il percorso.
“Hai un figlio?”
“Già. Ora muoviti elfo leccalecca!” Sbattendo gli occhi più volte, incredula, avanzo al suo fianco e una volta arrivati di fronte ai bambini Edward inizia a recitare con un gran bel OH OH OH! Classico, ma efficace. Prende posto sulla poltrona e io raggiungo Rosalie al cancello. Mi presento ai bambini, sorrido felice e li invito a mettersi in fila e di parlare a Babbo Natale con calma perché è un pochino sordo. Ridono e si divertono. L’elfo tecnico è addetto alla fotografia, mentre l’elfo musichiere si diverte a mettere canzoni sempre diverse.
Insieme a me ci sono altri elfi femmina, che si occupano di intrattenere i bambini prima di arrivare da Babbo Natale, e altre che portano in giro per il villaggio i genitori e i bambini che hanno già finito la chiacchierata con il vecchio vestito di rosso. Non abbiamo un attimo di pausa, non so quanti bambini ancora possono arrivare, ma sento le mani gelide e i piedi un blocco di ghiaccio, temo che potrei spezzarmi in mille tocchetti.
“Ehi, elfo leccalecca, hai bisogno di un po’ di calore? Ti vedo pallida.”
“Ho i piedi ghiacciati e le mani pure. Domani devo ricordarmi di vestirmi ancora di più. Tu non senti freddo?”
“Un po’. Ma non è importante.”
“Cosa ne dici di un po’ di cioccolata?”
“Temo che sporcherei la barba…” Faccio venire avanti un altro bambino che mangiucchia un bastoncino di zucchero e proprio in quel momento mi viene una grande idea. Sorrido al piccolo e lo aiuto a salire sulle gambe di Babbo Natale, poi raggiungo l’elfo tecnico e gli dico di avvisare Rose di portare delle cannucce e due cioccolate calde per me e Babbo Natale. L’elfo tecnico, Bruce, sorride e manda un sms al capo, poi ridacchia verso di noi e io gli strizzo l’occhio. Quando arrivano le due tazze, insieme a Rosalie, mi lancia uno sguardo malizioso e se ne va.
Faccio la foto con il bambino e Babbo Natale e porgo la tazza a Edward quando il piccolo se ne va. Mi guarda sorpreso e strizzo l’occhio anche a lui.
“Ottima idea, ricordami di ringraziarti!” La serata finisce, durante l’orario di cena la tavola calda di fronte al villaggio ci ha portato dei piatti caldi che abbiamo consumato nella casetta di Babbo Natale, sotto lo sguardo di qualche genitore che passava e ci indicava. Abbiamo sorriso e salutato poi ho pulito per bene la barba di Babbo Natale e siamo tornati in scena fino alle dieci.
Edward si propone di darmi uno strappo fino a casa, ma rifiuto preferendo camminare un po’. Nonostante la giornata sia stata stancante e infinita, al freddo, mi sento serena.


Le giornate seguenti si svolgono più o meno tutte uguali, abbiamo indossato entrambi due paia di calze pesanti, guanti più spessi e io anche un paio di pantacollant felpati. Tra un bambino e l’altro, una pausa, la cena e un momento di quiete io e Edward riusciamo a parlare e a conoscerci. Ho scoperto che ama i bambini più di quanto li possa amare io, è tenero con tutti i nani che vengono a trovarci il pomeriggio, anche più volte durante la settimana. Rosalie ha organizzato delle attività a cui abbiamo preso parte e i bambini, ignari del grande impegno di noi adulti, si divertono e credono alla magia del Natale e di Babbo Natale. Edward è davvero magnifico, si preoccupa di tenere sempre ben modulata la voce, di dispensare sorrisi e parole carine per chiunque, anche per quei genitori che attendono al freddo e annoiati ci guardano come se fossimo uno stupido spettacolo di burattini. Ho scoperto, poi, che sa cucinare davvero bene. Più volte ha portato la cena o spuntini lasciati nella casetta dello staff, in modo che potessimo approfittarne quando avessimo avuto fame. Ha girato l’America e l’Europa per diventare così bravo, stando alla destra di chef importanti, in ristoranti così altolocati da mettere su un curriculum da farti girare la testa. Ho anche scoperto che è buono, gentile, simpatico e premuroso, tutte caratteristiche che non spesso si trovano in giro. Mi fa ridere, mi fa dimenticare il tempo che passa, le delusioni, i dolori, i dispiaceri. Mi scordo del freddo e del fatto che siamo nel periodo dell’anno che odio di più. In più è davvero sexy e figo da paura.
Qualche giorno fa mi ha chiesto perché il Natale è riuscito a farsi odiare da me, la delicatezza con la quale ha posto le domande e con la quale mi ha ascoltata mi hanno fatto fidare abbastanza da parlare a briglie sciolte. Gli ho raccontato tutto, come se ci conoscessimo da una vita e la sensazione, lo devo ammettere, è stata proprio intensa.
Ma la cosa migliore è che c’è un’attrazione che rischia di scoppiare da un momento all’altro tra noi. E io non vedo l’ora che succeda! Ci sfioriamo e la mia pelle si ricopre di brividi, mi sussurra per dirmi qualcosa che i bambini non devono sentire e il suo fiato caldo mi fa eccitare; i suoi occhi poi, mi guardano con quello sguardo profondo e bagna mutande da farmi sperare che ci sia abbastanza tempo per una sveltina nella casetta dello staff. Mi riscuoto dai miei pensieri quando la sua testa si avvicina alla mia.
“Ehi Elfo leccalecca! Ti va se ci beviamo una cioccolata calda alla fine della recita?” Manca ancora un’ora prima che il villaggio venga chiuso, e l’attività di stasera non è ancora terminata, così molti bambini stanno gridacchiando, canticchiando e imparando nuove canzoncine di Natale come un fantastico coro. Al di là della staccionata i genitori si conoscono tra loro, chiacchierano e condividono questa serata. Forse questo lavoro non è poi così stupido, se nel volto delle persone che passano di qui o che accompagnano un bambino nascono sorrisi meravigliosi.
“Sei sicuro che sia il caso? Tuo figlio ti starà aspettando.”
“Starà dormendo. Ultimamente cerca di fare il bravo bambino perché mancano pochi giorni a Natale.” Ridacchia senza farsi sentire, mentre fingiamo di cantare con i bambini.
“D’accordo.”
Dopo due ore, siamo finalmente liberi dai costumi di scena, dal gruppo di tutti gli elfi canterini e tecnici, da Rose che ultimamente ci sta con il fiato sul collo. Il bar di fronte al villaggio però ha già chiuso e l’unico altro bar è dall’altra parte del paese, di fianco all’Ospedale.
“Mi sa che stasera siamo stati sfortunati. Da quando porti stuzzichini e tartine al villaggio Mike ha deciso di chiudere prima e di farci un dispetto.”
“Così sarebbe colpa mia?” Mi fissa con un sopracciglio alzato, ma si trattiene dal ridere.
“Ovvio, è sempre colpa tua, uomo!”
“Andiamo! Ti offro una cioccolata calda!”
“Si, ma dove? È tutto chiuso!”
“A casa mia, abito qui vicino.” Passeggio con lui al mio fianco, senza più aprire bocca. Non so cosa potrebbe mai uscirmi dalle labbra in questo istante. Casa sua. Già è difficile trattenermi dal saltargli addosso nel momento in cui indossa il vestito di Babbo Natale, o quando si spoglia. Ecco, quando si spoglia è ancora peggio. Sotto la giacca pesante del vestito di scena indossa quasi sempre una felpa termica senza cappuccio, un paio di jeans stretti a vita bassa; il tutto non favorisce la mia sanità mentale. Quando toglie il vestito rosso la felpa si alza evidenziando i muscoli al di sotto, la sua pelle chiara e modellata è perfetta, ti fa salire la voglia incontenibile di leccarlo, stringergli i fianchi con le mani e lasciarlo spingere nella tua bocca all’infinito. È ancora più deleterio però quando si abbassa ad allacciare le scarpe, il suo fondoschiena, con quei jeans stretti, è evidenziato come se fosse nudo di fronte a me. Più volte sono tornata a casa e nella mia stanza ho immaginato come starebbe bene tra le mie gambe, io con le unghie piantate nel suo sedere perfetto e lui che spinge dentro di me come una furia.
“Bella, ci sei?” Alzo gli occhi verso la mia fantasia e arrossisco ancora di più, sento le guance andare a fuoco.
“Scusa, dicevi?”
“Siamo arrivati.” Indica un portone di un palazzo con il pollice. “Sei sicura di stare bene? Sei tutta rossa!” Scoppio a ridere e scuoto la testa; sì, sì sto bene!
Lo seguo, per fortuna non abbiamo molte scale da salire, al secondo piano si ferma e tira fuori un mazzo di chiavi per aprire la massiccia porta dell’appartamento.
“Benvenuta a casa mia.” Non faccio in tempo a fare un passo all’interno che un piccolo esserino sgambetta verso di noi, si tuffa di getto sulle gambe di Edward e lo sbilancia.
“Papà!”
“Ehi nano, che ci fai ancora sveglio? È passata da un po’ l’ora della nanna!” Gli scompiglia i capelli, poi lo prende in braccio e gli lascia un bacio sulla testolina. È la sua fotocopia e non ho dubbi che quando quel piccolino sarà adulto farà stragi di cuori.
“No sonno!”
“Ci scommetto! Hai bevuto la cioccolata che era rimasta vero?” Gli lancia un’occhiata ammonitrice e il bambino sembra arrossire. Credo di non aver mai visto un bambino arrossire, è così tenero.
“Poca!” Li osservo, ancora dallo zerbino, non ho mai visto spettacolo più dolce di questo.
“Certo! Dirò alla tua tata che sarà licenziata la prossima volta!” Alza la voce, come se dovesse farsi sentire da qualcuno.
“Ti ho sentito, ingrato!” E questo qualcuno compare, con un libro in mano e un pancione gigante. Non so come faccio a restare in piedi. Sono finita ai confini della realtà, ancora relegata in un angolo della scena, fuori dalla porta, con un’espressione davvero confusa. E una morsa di gelosia mi attanaglia lo stomaco quando la ragazza con il pancione si avvicina e bacia Edward sulla guancia per poi avvicinarsi al piccolo e sussurrare: “Avevamo fatto un patto, diavoletto. Non si fa la spia!”
Non sapevo cosa pensare. Edward non mi aveva mai detto di essere fidanzato, sposato o in attesa di un altro bambino. La cosa mi ha davvero spiazzata e l’intenzione è quella di scappare lontano da tutto questo enorme casino. Sembra che la storia sia destinata a ripetersi infinte volte. Natale è sempre così antipatico con me, che io non posso fare altro che lasciarlo scorrere senza farmi toccare troppo. Questa volta davvero. Faccio un passo indietro, sconvolta. Mi ha invitata a casa sua per una cioccolata calda, non ha mai parlato di una fidanzata o di qualcuno che lo aspettava a casa oltre a suo figlio. Jasper poi non ne ha fatto parola. Mi sono illusa, sì, lo ammetto. Ho sempre creduto che alla fine dell’esperienza al villaggio potessimo darci appuntamento e uscire a cena, ma a quanto vedo non è possibile. Mi allontano di un altro passo, fino ad arrivare alle scale che scendo rapidamente. Una volta al portone esco e lo lascio chiudere dietro di me. Non mi ricordo la strada che abbiamo fatto per arrivare, ma sono felice di aver abitato qui per molto tempo e di conoscere ogni piccolo viottolo della mia cittadina; torno a casa camminando nella notte buia e fredda, da sola.

La mattina dopo apro gli occhi e la prima cosa che noto non è il soffitto, ma il volto di Jasper. Sobbalzo sul letto e mi metto seduta, passandomi una mano tra i capelli per pettinarli.
“Ehi!”
“Ciao, ben svegliata. Bevi un sorso di caffè e parliamo.”
“Grazie, di cosa?” Porto la tazza alle labbra, scotta un po’ ma sono felice di sentir scorrere lungo la gola qualcosa di così caldo, sembra che possa abbracciarmi e tenermi al sicuro, anche se è solo dello stupido caffè.
“Di Edward e di quello che è successo ieri sera.”
“Non è successo nulla.”
“Non è quello che mi ha detto ieri alle due e mezzo quando mi ha chiamato.”
“Ti ha chiamato?”
“Già, alle due e mezzo.”
“Perché ti ha chiamato?”
“Sorella, hai sentito la parte in cui ti ho detto che mi ha chiamato alle due e mezzo?” Mi guarda alzando un sopracciglio con espressione scettica.
“Sì, l’ho sentito.”
“Ecco. Ero nel pieno del mio sonno ristoratore. Ha interrotto i miei sogni, il calore del corpo di Alice accanto al mio e la mia sanità mentale. Puoi immaginare cosa voglia dire ricevere una telefonata in piena notte?”
“Okay, mi dispiace, anche se non è colpa mia!” Scoppia a ridere scuotendo la testa.
“Come no!” Torna serio e mi fissa. “Sei tornata tardi, ti sei infilata a letto senza passare a salutare, hai fatto così piano che ho faticato a sentirti. Poi Edward mi chiama, mi chiede se sei a casa e se stai bene. Ora ho bisogno che tu mi dia delle risposte.”
“Non c’è niente da dire Jazz, mi aspettavo una cosa e ne ho vista un’altra.”
“Di sicuro.” Resto in silenzio a guardare il caffè nella mia tazza, non ho voglia di parlarne perché chiaramente è un errore mio. “Per favore Bella, questa volta non escludermi.”
“Edward mi ha chiesto di bere una cioccolata con lui, Mike era chiuso e così mi ha proposto di andare da lui. Quando siamo arrivati suo figlio è corso tra le sue braccia ancora sveglio e poi è arrivata la sua fidanzata incinta. Non so cosa mi è preso, pensavo che… Insomma, abbiamo parlato tanto e non mi ha mai detto di avere qualcuno a casa oltre a suo figlio. Invece arrivo lì e scopro una bionda mozzafiato incinta, piedi scalzi e tanto affettuosa. Me ne sono andata prima che la mia mente impazzisse per la figuraccia. Credevo che quella dannata cioccolata significasse altro, ma è colpa mia.”
“Oh, Bella!” Scuote la testa e mi guarda negli occhi. “Solo tu puoi comportarti così! Non so cosa ti passa in quella testa bacata ma di sicuro è il caso che chiedi scusa a Edward. La ragazza che hai visto è Tania, sua sorella. È sposata con un ricco manager di New York che al momento è in Cina per affari. Lei sta da Edward perché non vuole stare a casa da sola. La mamma di Robert ha lasciato suo figlio e Edward dopo qualche mese dal parto.” Abbasso la testa sconsolata, fissando la tazza tra le mie mani. Ho sbagliato. Ho interpretato male ciò che i miei occhi hanno visto.
“Devi smetterla di pensare che le persone vogliono solo ferirti. Era preoccupatissimo quando mi ha chiamato. È uscito a cercarti ma sembravi esserti volatizzata nell’arco di poco tempo. Davvero, dovresti parlarci.”
“Non credo di averne il coraggio. Ho fatto la figura della tizia gelosa senza neanche averne il diritto!” Si alza dal letto e scoppia a ridere dirigendosi alla porta.
“Parlagli chiaro. Edward odia chi tiene per sé i segreti ed è la cosa che più lo manda in bestia. Sii onesta con lui, riguardo a tutto. È un uomo meraviglioso e un amico fantastico, potresti davvero tornare a sorridere di nuovo con lui.” Non ho il tempo di rispondere perché è già fuori dalla mia camera.
Passo la mattinata a sistemare i vestiti e a fare qualche lavatrice, pulisco il piano di sopra e rifaccio i letti, Alice lavora e non ho voglia di bighellonare a casa loro senza dare una mano. Parto da casa un po’ prima per andare al villaggio, in cuor mio spero che Edward sia già lì e che gli vada di ascoltare le mie patetiche scuse da ragazzina. Non so che diavolo mi sia preso.
Quando arrivo, però, lui non c’è. Mi vesto e resto ad aspettare quella che mi sembra un’infinità di tempo. Arriva all’ultimo secondo disponibile, il solito thermos di caffè, un vassoio tra le mani e un’espressione dura sul volto. Si veste in silenzio ed esce dalla casetta senza aspettarmi. Perfetto! Ha reso chiaro che chiedergli scusa non sarà affatto semplice.
Lo seguo quasi correndo.
“Ehi, Babbo Natale, aspettami!” Si ferma, nonostante sia arrabbiato con me e quando lo raggiungo riprende a camminare lentamente. I bambini non sono ancora in fila per entrare nel villaggio e avrei tutto il tempo per chiedergli scusa, ma quello che mi esce dalle labbra è decisamente la cosa sbagliata. “Come stai?” Si ferma di botto, quasi vicino alla casetta di Babbo Natale e si volta a guardarmi. La barba gli nasconde parte del suo bellissimo viso, ma le sopracciglia contratte mi danno una chiara visione di quanto sia arrabbiato.
“Mi prendi per il culo?” Salto all’indietro da tanta irruenza. Il tono brusco che usa non l’ho mai sentito, è sempre così calmo.
“Mi dispiace, io-”
“Non me ne frega niente. Queste stronzate da ragazzina non servono a nulla con me, vedi di starmi alla larga.”
Jasper non mi aveva parlato del suo caratteraccio, ha tessuto le sue lodi ma i suoi difetti me li ha lasciati da scoprire, maledetto!
“Edward!” La mia esclamazione quasi senza voce derivante dalla sorpresa non lo intenerisce.
“Ne ho avuto abbastanza della gente che mi racconta cazzate e che mi spara una scusa dopo l’altra, pensavo che tu non fossi così, ma ho sbagliato e prima di fare qualche errore è il caso di mettere una bella distanza tra noi. Fine della discussione.”
Porca puttana, che tipo.
Cammina a grandi passi e si getta di peso sulla poltrona a lui dedicata nella casetta di Babbo Natale, potrei trovare il momento adatto per parlargli proprio ora, ma non lo faccio. Sconvolta da quello che ha detto resto fuori della casetta, seduta su uno sgabellino di legno a far finta di cucire calzette per i bambini. Dopo una buona ora passata al freddo i primi diavoletti arrivano, armati di sciarpa e guantini e sbraitano saluti verso me e Babbo Natale. Gli altri dello staff si sono preparati e messi in posizione, tocca solo a noi.
Le attività proseguono senza intoppi fino alla fine della giornata, ma io e Edward non ci siamo più rivolti la parola. È andato a cambiarsi prima di tutti quanti, nonostante sia sempre stato l’ultimo in questo periodo e non mi ha aspettata come al solito, è scappato via come se avesse il fuoco sotto al culo. Mi sono cambiata da sola, ho chiuso a chiave la casetta dello staff, ho spento le luci inutili e ho lasciato acceso solo le decorazioni minuscole di qualche alberello. Chiudo il cancello di recinzione e camminando a passo lento torno a casa da sola, per l’ennesima volta. Alle volte credo davvero di dovermene andare, ricominciare da qualche altra parte, ma le cose non sono facili e sinceramente, non ho avuto una bella esperienza. In più mi sto affezionando a questo posto ancora più di quanto lo ero già e andarsene non è una buona idea.


Non riesco a parlare con Edward neppure il giorno dopo, né quello dopo ancora. Mi ignora e, quando mi avvicino per iniziare il discorso, trova sempre qualcosa da fare o qualcuno con cui chiacchierare. Così, invece che progredire come avrebbe voluto mio fratello, sono drasticamente caduta in basso. Ho iniziato a isolarmi dal gruppo, a non chiacchierare con nessuno, a non mangiare insieme a loro; ho ricominciato con il mio atteggiamento freddo e distaccato, tanto che Jasper ha smesso di rivolgermi la parola e ha iniziato a mandarmi occhiatacce a tutt’andare. In più, fra qualche giorno è Natale.
Domenica, tre giorni prima di Natale, la flotta di bambini al villaggio è impressionante, già alle cinque siamo distrutti; alcuni di noi faticano a mantenersi in piedi, altri sbadigliano in continuazione e qualcuno inizia a lamentarsi del freddo. Io invece sto zitta, evito di lamentarmi, di sbadigliare e di far notare quanto sia stanca, non ho voglia di attirare sguardi. Babbo Natale sta giocando con alcuni bambini attorno un focolare finto, seduto su scomode panchine di tronchi quando Rosalie si avvicina e mi sussurra all’orecchio che abbiamo un problema e mi indica con il dito la staccionata. Ci metto un pochino a capire ma il pianto disperato giunge alle mie orecchie, come a quelle di Edward. Ha un radar, inevitabile, per suo figlio. Il bambino è in braccio alla sorella di Edward, la quale ha una faccia dispiaciuta, tesa e stanca; il bambino invece continua a lamentarsi e dimenarsi sul suo grande pancione.
“Che succede?” Sussurro a Rose.
“Non lo so, Tania stava iniziando a raccontarmi quando il piccolo ha iniziato a scalciare e a fare i capricci. Sono venuta ad avvisarti perché dovresti prendere in mano la situazione, di certo non può farlo Edward.”
“IO?” Sgomenta ho alzato la voce, così tanto che Edward si è voltato verso di me con sguardo truce. “Che dovrei fare?” chiedo abbassando la voce.
“Non credo che Edward abbia detto a suo figlio che Babbo Natale non esiste e che lui lo sta impersonando per rendere felice gli altri bambini, per cui devi trattare quel piccolo come tutti gli altri. Non so per quale motivo sua sorella l’abbia portato qui, evidentemente voleva Edward, ma credo che Tania sia andata fuori di testa e non abbia ben pensato alle conseguenze.”
“Okay. Vedrò cosa posso fare.”
“Avvisa Edward.” Sbuffando mi avvicino al gruppo di piccoli batuffoli incappucciati.
“Ehi piccolini, posso rubarvi Babbo Natale per un controllo alla fabbrica dei giocattoli? C’è un problema sulla lista dei desideri!” Vedo Rose avvicinarsi, con il suo cappellino rosso.
“Intanto l’elfo maggiore vi terrà compagnia. Prometto di riportarvi Babbo Natale immediatamente!” Un coro di si espande e Edward, in tutta fretta, mi trascina nella casa che è stata progettata per essere la fabbrica dei giocattoli. In realtà sulla porta ci sono altri due elfi dello staff che raccontano la storia ai bambini, spiegando che quella è solo l’entrata e che la fabbrica è accessibile solo dagli elfi e da Babbo Natale con una parola magica e segreta. È così delizioso vedere le faccine dei piccoli ascoltare questa favola che quasi quasi, mi viene voglia di avere un bimbo per godere di quelle espressioni sorprese tutti i giorni.
“Che succede? Perché mio figlio è qui?” Si agita e abbassa la barba per respirare meglio. La preoccupazione nei suoi occhi è così lampante che mi lascia per un attimo interdetta.
“Non lo so.” Dico, rimettendogli a posto la barba perché dalle finestrelle ci potrebbero vedere. “Rose mi ha chiesto di mantenere le apparenze, di trattarlo come ogni altro bambino. Non gli hai detto che Babbo Natale non esiste, vero?” Mi scocca un’occhiata strana e scuote la testa. “Okay, quindi lo faccio entrare al villaggio, lo porto a fare un giro, gli faccio scrivere la letterina e cose del genere. Insomma tutto quello che abbiamo fatto con gli altri piccoli. Se poi scopro anche che cosa è successo vengo a riferirti.”
“No.” Sgrano gli occhi sorpresa.
“Okay, cosa dovrei fare quindi?” Sbuffa e cammina su e giù per quel piccolo spazio, sospira più e più volte e devo davvero smuoverlo prima che Rose ci venga a prendere per le orecchie. “Senti, mi dispiace. So che sei arrabbiato con me e che non ti fidi, ma è quello che facciamo qui dentro. Non credo che tuo figlio stia male, in quel caso Tania l’avrebbe portato all’ospedale e non qui. Credo piuttosto che voglia suo padre e che non lo veda abbastanza in questo periodo, quindi perché non fargli cambiare aria e farlo pensare ad altro per qualche oretta?” Mi guarda determinato negli occhi e annuisce.
“Okay, ma se scopri il motivo per cui piange così disperatamente vieni a dirmelo.” È angosciato e preoccupato, poveretto, non immagino neppure come debba sentirsi. Accarezzo il suo braccio e gli sorrido annuendo. Usciamo dalla casetta e mentre lui torna dal gruppo di bambini, affiancato da un altro elfo, io mi occupo di suo figlio. Mi avvicino alla staccionata dove Tania sta cercando, inutilmente, di farlo smettere di piangere. Il suo pianto mi strazia, ma non credo di capire quanta angoscia stia provando Edward.
“Ehi, piccolino! Che succede? Lo sai che al villaggio di Babbo Natale non si piange mai?” Tania mi osserva, come se cercasse di collegare il mio volto a un’immagine nella sua testa. “Io sono l’elfo Leccalecca, ti va di fare un giretto con me qui? Ti posso dare uno stecco di zucchero, una mela caramellata o dei biscottini alla cannella e facciamo un bel giretto per vedere dove vive Babbo Natale!” Il piccolo scuote la testa e la appoggia alla spalla della zia.
“Voglio papà!” Ecco, immaginavo che fosse questo il motivo.
“Scommetto che il tuo papà sta lavorando, vero?” Lui annuisce.
“Non posso portarlo al ristorante, il capo di Edward ha detto che sono vietate le visite in questo periodo.” Capisco, da quello che mi ha detto Tania, che è la scusa che hanno usato per il bambino.
“Voglio papà!” Grida ancora.
“Ehi, basta urlare, d’accordo? Guarda lì in fondo, ci sono tanti bambini che stanno giocando e parlando con Babbo Natale. Ti sembrano tristi?” Lui scuote la testa. “Bene, perché ti prometto che ti farò divertire e quando tuo papà tornerà a casa stasera gli racconterai di questa giornata e lui sarà così contento, ma così contento, che ti darà talmente tanti bacini da farti sorridere. Ci stai?”
“Davvero?”
“Parola di elfo Leccalecca!” Il piccolo soppesa le mie parole, si volta verso la zia che annuisce e lo mette a terra. Fa tutto il giro della staccionata fino al cancelletto, dove un altro elfo lo fa passare.
“Ci sai fare con i bambini!” Sussurra Tania. Sorrido e alzo le spalle. “Dì a Edward che mi dispiace, fa così da quando è uscito di casa e non so perché oggi è così capriccioso.”
“Perché gli manca suo padre. È normale. Non preoccuparti, parlo io con Edward, se vuoi andarti a riposare al piccolo ci penso io.”
“Grazie, starò lì nel bar a bere qualcosa e fare qualche telefonata.” Il piccolo saluta la zia con la manina mentre si avvicina. Mi piego sulle ginocchia e dalla tasca tiro fuori una spilletta a forma di cappellino di Babbo Natale.
“Devi mettere questa sulla tua bellissima e calda sciarpetta. Gli altri elfi sapranno che sei venuto in visita al villaggio e ti mostreranno tutto quello che c’è da vedere. Vieni.” Passo da un cestino e afferro i sacchettini. “Zuccherini, mela o biscottini?” Sembra indeciso e poi mi fissa. Cavoli, ha lo stesso sguardo determinato di suo padre già a quest’età.
“A te cosa piace?”
“Tutto, ma i biscottini sono buonissimi!” Allunga la mano e appoggio il sacchettino decorato nella sua. Poi cammino con lui al mio fianco e ripercorro quello che ho fatto con gli altri bambini gli altri giorni. Il tempo vola e il bambino è tranquillo e sereno, senza pensare al padre e senza pianti isterici. Ci sediamo all’interno della casetta dei giocattoli, gli mostro un grande librone con una lista infinita di giochi e lui ridacchia quando dico qualcosa di scemo. È tale e quale a suo padre, porca miseria.
“Allora, adesso cosa vogliamo fare? Scriviamo la letterina dei desideri?”
“Tu lo conosci il mio papà?” Cosa dovrei dire? Sì, lo conosco da qualche settimana, fa il Babbo Natale e ci lavoro insieme tutti i giorni. Ci sono state delle incomprensioni ma sembra che la convivenza possa tornare su terreni più tranquilli. A parte questo, sogno di spingerlo addosso al muro e slacciargli i pantaloni circa il settanta percento della mia giornata.
No, ovviamente non posso dirgli una cosa del genere.
“Io conosco tutti, Robert. Sono l’elfo Leccalecca, aiuto Babbo Natale da tantissimo tempo!”
“Davvero?”
“Sì piccolo!”
“Quindi… tu sai cosa vuole il mio papà per Natale, vero?” Annuisco, anche se non ne ho la più pallida idea.
“Me lo dici?”
“Perché?” Non mi è neanche saltato in mente di fingere, porca vacca. “Robert, dei regali si occupa Babbo Natale, lo sai. Io non posso dire nulla. Se dovessi rivelare un segreto del genere… sarei cacciata dal villaggio di Babbo Natale subito.” Riprendo la mia recita con difficoltà.
“Perché papà non chiede mai niente a Babbo Natale e non riceve mai niente. Vorrei tanto che Babbo Natale gli portasse un regalo, ma io non so cosa vuole papà e non posso chiederlo per lui.” L’espressione triste del bambino mi congela sul posto. È così tenero che mi vengono le lacrime agli occhi, ma anche una brillante idea.
“Ho un’idea geniale piccolo. Adesso ti porto da Babbo Natale, giochiamo con gli altri bambini e quando sarai da solo potrai fare una foto con il vecchio con la barba e chiedergli cosa desidera tuo papà per Natale e se riceverà un regalo. Che ne dici?”
“Vecchio con la barba!” Scoppia a ridere e si tiene la pancia.
“Non dirgli che lo chiamo così!” Gli strizzo l’occhio e mi faccio dare la manina inguantata per andare attorno al fuoco finto. Quando Edward ci vede sospira così forte che me ne accorgo e gli lancio un’occhiataccia.
“Ehi elfo Leccalecca, dove ti eri cacciata?” Non oso immaginare cosa voglia dire modulare la sua voce in quel modo per tutto il tempo.
“Ho trovato questo nanetto piagnucolone che non aveva ancora visitato il villaggio e gli ho mostrato tutto quanto!”
“Ehi, non sono piagnucolone! E non dirlo al mio papà, se no non mi vuole più bene e pensa che sia una femminuccia.” Scoppio a ridere e alzo il sopracciglio verso Edward che mi risponde stringendo gli occhi.
“Non lo dirò Robert, ma stavo solo scherzando!” L’espressione corrucciata del piccolo è identica a quella del padre, scoppierei a ridere se non avessi davanti Robert. “E non dire più una cosa del genere. Il tuo papà ti vorrà sempre bene, sempre, che tu pianga o che tu sia forte. Non pensarci neanche! Scommetto che anche se è al lavoro pensa a te ogni istante.”
“È un cuoco bravissimo. Amo tutto quello che prepara, ma le sue lasagne sono meglio di qualsiasi altra cosa!” Dice orgoglioso battendo le manine davanti a sé.
“Ci scommetto! Andiamo, siediti qui e goditi un po’ di tempo con Babbo Natale. Poi faremo qualche foto.”
Il piccolo scoppia a ridere senza un apparente motivo e Edward ci osserva stranito.
“Perché ridi nanetto?” Dice con il vocione modulato.
“L’elfo Leccalecca ti chiama vecchio con la barba!” Nella sua ingenuità ride ancora più forte facendo ridere anche gli altri bambini. Io sorrido verso Edward che ha gli occhi lucidi e limpidi. Senza quella barba è l’uomo più affascinante che conosco, ma così risalta i suoi occhi meravigliosi.
“Ehi nanetto, era un segreto mio e tuo!” Il piccolo arrossisce o mormora un mi dispiace. “Non importa! Babbo Natale non si arrabbia, vero Babbo Natale?” Marco il suo epiteto e lui scoppia a ridere cercando di mascherare la sua tonalità.
“È vero che sono un vecchio con la barba!”
I bambini si trattengono ancora per un’ora, Edward appare più tranquillo e sereno, gioca come mai in quei giorni. Sono soddisfatta della giornata, dopo tutto. Quando tutti i bambini sono pronti per andare e intravedo anche Tania al di là della staccionata, trattengo Robert per la mano.
“Ehi nanetto, non volevi parlare con Babbo Natale riguardo tu sai cosa?” Annuisce e si avvicina a Edward timidamente.
“Hai fatto il bravo quest’anno?” Chiede questo, abituato alle solite frasi con i bambini.
“Sì.” Vedo Edward alzare le sopracciglia e se non rischiassi di farci sgamare riderei a bocca aperta.
“E cosa hai chiesto come regalo?”
“Ehi, lo sai già. Elfo Leccalecca mi ha detto che tu conosci tutti i regali che ti vengono chiesti.”
“Lo so, ho letto tutte le letterine che mi sono arrivate, ma volevo sentirlo da te!”
“Ti è arrivata anche la letterina del mio papà?” Mi siedo sul tronco di fianco a quello dove sono loro e resto a guardare la scena che si fa via via sempre più tenera.
“Certo che mi è arrivata.”
“E sai cosa vuole per Natale?”
“Sì che lo so. È stato buono il tuo papà quest’anno?”
“È il papà migliore del mondo! Lavora tanto, ma passa tutto il suo tempo con me quando non è al lavoro. È un cuoco ed è davvero bravo. Per il mio compleanno ha preparato una torta buonissimissima.”
“Davvero?” Il piccolo annuisce e poi continua.
“Quindi gli porterai un bel regalo? Perché lui non ha mai pacchetti colorati sotto l’albero da aprire e penso che sia davvero triste. Vorrei che gli portassi qualcosa, ma non so cosa vuole come regalo… ma tu lo sai, quindi mi raccomando, non dimenticarti di lui!” Gesù, potrei mettermi a piangere. Gli occhi di Edward si fanno lucidi e grandi per la sorpresa. Si schiarisce la voce e cerca di darsi il solito tono profondo e anziano che ha sempre usato.
“Gli porterò un bel regalo.”
“Non dimenticartene. Papà è sempre triste la mattina di Natale, ti sei dimenticato di lui per troppo tempo!”
“Piccolo, mi dispiace.”
“Sono arrabbiato con te poco poco, ma se prometti che questa volta lo fai felice… non lo sarò più.”
“Non me ne dimenticherò, promesso!” Faccio un cenno al fotografo di scattare qualche foto e quando mi avvicino Edward mi prende la mano stringendola forte. La mia idea non gli è dispiaciuta e sono davvero felice, forse potremmo sotterrare l’ascia di guerra.
Tania porta a casa Robert e noi restiamo fino alle dieci al villaggio, poi andiamo a cambiarci nella casetta dello Staff, insieme al gruppo beviamo la cioccolata e mangiucchiamo qualcosa prima di andare via. Scordo la borsa e devo tornare indietro, così saluto tutti calorosamente. È stata una buona giornata, non c’è motivo di essere fredda e distaccata con tutti. Prendo la borsa dalla casetta e prima di riuscire a raggiungere la porta per uscire, Edward entra e la chiude alle sue spalle. Dai vetri delle finestrelle entra la luce delle luminarie che sono sparse sulla casetta, attorno al villaggio e per le strade; illuminano così la sua figura che avanza verso di me decisa.
“Edward…” Sussurro e lui sorride appena. Mi tira a sé mettendomi le mani sui fianchi, la borsa mi cade di mano e alzo il volto per guardarlo negli occhi.
“Grazie per oggi.” Abbassa il viso sul mio e le sue labbra si appoggiano alle mie. Sono calde, morbide e decisamente capaci. La sua lingua setosa mi invita a farlo entrare nella mia bocca, socchiudo gentilmente ma nel momento in cui i nostri fiati caldi si incontrano il bacio cambia e diventa focoso. Mi stringe ancora più forte, tanto che sembra sia spalmata su di lui. Mi lascio andare e gli circondo il collo con le braccia, alzandomi sulle punte e stringendomi a lui ancora di più, se è possibile. Mi fa indietreggiare, fino ad appoggiarmi con la schiena al legno della casetta, le mani scendono sul mio sedere e spingendomi in alto con uno slancio allaccio le gambe alla sua vita. Sono in braccio a Edward, appoggiata alla parete di una casetta di legno, dentro un villaggio di Babbo Natale e sto gemendo nella bocca di questo uomo figo da paura. Si stacca dalla mia bocca solo per baciarmi la mandibola, il collo, mordicchiare il lobo dell’orecchio e gemere per il mio succhiotto sulla clavicola. Volevo marchiarlo da un’infinità di tempo, ma non potevo farlo, ora invece, tra le sue braccia, mi sento autorizzata a prendermi ogni cosa di lui. Ho spostato la giacca e la maglia e ho iniziato a leccare e mordicchiare la clavicola fino a risucchiare un pezzo di pelle così forte da lasciare un segno rosso e da farlo gemere e ansimare forte.
“Dio! Se non la smetti rischio di combinare un casino pazzesco!” Inorgoglita dalla sua reazione mi strofino sulla sua evidente erezione che preme giusto nel mio centro caldo coperto dai jeans. Mi morde il collo. “Cazzo! Smettila, sto cercando di calmarmi!” La voce roca ed eccitata mi racconta che, nel suo incoscio, vuole proprio il contrario. Ridacchio e non lo ascolto, mordendogli il lobo dell’orecchio mi sfrego ancora un’altra volta. “Cazzo! Cazzo!” Fuori di sé comincia con togliermi il cappotto e mi strappa il maglione di dosso, si tuffa con la testa tra le mie tette e lecca la porzione di pelle delicata e chiara tra i miei seni. Slaccia il bottone del jeans e tira giù la cerniera, facendo la stessa cosa ai suoi. Fa freddo qua dentro, ma l’attrito dei nostri corpi, le sue mani e la sua bocca sulla mia pelle mi scaldano come se ci fosse un incendio attorno a noi. In un attimo di lucidità tira fuori dal portafoglio un preservativo e lo tiene tra i denti per il bordo della bustina. Mi mette a terra, si leva il maglione, i jeans e i boxer e si siede sulla poltroncina della casetta, mi tira a sé dopo che ho levato i jeans e ho scalciato le mutandine. L’attrazione fisica che abbiamo percepito tra noi in queste settimane, che è cresciuta con sguardi rubati e sussurri durante tutte queste giornate al freddo, è decisamente scoppiata.
Prendo con una mano il preservativo dalle sue labbra e gli bacio le labbra, mentre con la mano libera lo accarezzo dal collo fino ad arrivare al suo pene eretto. Lo stringo, mi muovo su e giù e i suoi gemiti rochi e sempre più ravvicinati nella mia bocca mi dicono che devo darmi una mossa. Strappo l’involucro con mani tremanti e glielo srotolo sul membro, provocandogli ansiti sempre più frequenti e imprecazioni una dietro l’altra.
Impaziente neanche mi lascia terminare, con una mano spinge il lattice deciso fino in fondo, con l’altra mi afferra per il fianco e mi fa sistemare con le gambe ai lati delle sue, poi mi tira giù su di sé. Sono a cavalcioni su questo uomo stupendo. Finalmente.
“Oh sì!” Devo tenermi alle sue spalle, la sensazione è di essere spaccata in due, ma è meravigliosa. Le sue mani mi tengono per i fianchi muovendomi secondo il ritmo che gli piace di più, è così eccitante, così giusto che la mente sconnette ogni pensiero razionale. Non è mai stato così in passato, Edward è stato impaziente, non si è preoccupato di preliminari e dolcezza; è andato dritto al punto. Proprio per questo è magnifico. Vedere e sentire a pelle il bisogno che ha di me, il desiderio della mia carne attorno a lui, è eccitante oltre misura. Le sue mani non smettono di toccarmi, stringermi, tenermi ancorata a sé, ed è perfetto. Lo bacio succhiando la sua lingua tra le mie labbra e stabilisco io il mio ritmo, impaziente di godere.
“Cazzo, sei fantastica. Sì, muoviti così!” Dice staccandosi dalla mia bocca. I nostri gemiti si fanno più forti, il respiro è veloce e la voce roca.
“Edward!” Sto per esplodere, lo sente e mi abbraccia forte, facendomi inarcare la schiena e avvicinandosi a me, spinge con i fianchi per venire incontro alle mie spinte e la posizione e lo sfregamento sono così perfetti che la testa mi cade all’indietro priva di forza e mi sciolgo su di lui gridando il suo nome, mentre sento Edward affondare sempre più a fondo e gridare: “Sì, cazzo! Cazzo, sei perfetta! Sì, sì, sììì!”
Tornare a respirare normalmente è difficile dopo uno dei migliori amplessi della propria vita. Siamo abbracciati, ancora nella stessa posizione di prima, ma inizia a fare freddo in questa casetta senza riscaldamento e la mia pelle si riempie di brividi.
“Hai freddo?” Annuisco sulla sua spalla, incapace di parlare. Mi aiuta ad alzarmi e nel silenzio imbarazzato e post-orgasmico ci rivestiamo. Ma non è abbastanza, batto i denti dal freddo e anche se cerco di non farlo notare, lui se ne accorge. Mi abbraccia, sfregandomi le braccia con le sue mani forti e inglobandomi sotto il suo giaccone. Quando la situazione non migliora è deciso a fare qualcosa, usciamo dalla casetta insieme, abbracciati e ci chiudiamo la porta alle spalle. Cammina veloce lungo il sentiero fino ad arrivare al marciapiede.
“Devo andare.” Mormoro a bassa voce, intrisa di freddo e di stanchezza.
“Devi scaldarti. Vieni da me, bevi qualcosa di caldo e poi ti riaccompagno in macchina.” L’idea sembra allettante, ma non ho per niente voglia di trovarmi ancora di più in imbarazzo.
“Non è una buona idea. Corro a casa e mi infilo sotto le coperte.”
Non so cosa ho detto, ma si infuria staccandosi da me.
“Cazzo, la vuoi smettere una buona volta?” Lo guardo confusa. “Scappi. Scappi in continuazione. Non ho intenzione di lasciarti da sola adesso, dopo quello che successo tra noi.” Abbasso la testa e i denti ricominciano a battere per il freddo. “Merda!” Si avvicina abbracciandomi più stretta di prima. Mi trascina lungo il marciapiede fino al suo appartamento, come poche sere prima apre il portone e saliamo le scale ancora abbracciati. Questa volta, quando apriamo la porta di casa, il piccolo non viene a salutarci e nessuna donna incinta bacia Edward. Mi fa entrare e mi trascina letteralmente in cucina, accende il bollitore e tira fuori due tazze in cui posiziona due bustine di tea. Poi si leva il cappotto e lo appoggia su una sedia. Sono seduta ma faccio fatica a capire come mi sono infilata in questa situazione imbarazzante. Sparisce lasciandomi in cucina da sola per qualche minuto e quando torna ha una coperta morbida tra le mani. Mi fa alzare e mi aiuta a levarmi il cappotto, mi mette la coperta sulle spalle e me la stringe sul petto, poi con i lembi tra le mani mi avvicina a sé.
“Sei sconvolta, cazzo.”
Annuisco, ma non era una domanda.
“Perché?” Scrollo le spalle e davvero non so cosa dire. Sta per dire qualcosa ma il bollitore fischia e lui versa l’acqua bollente nelle tazze, poi le mette su un vassoio, da un grosso contenitore tira fuori dei biscotti e li mette in un piattino e mi fa segno di seguirlo. Ci accomodiamo sul divano, davanti ad un camino con le braci ancora accese e un pezzo di legno appena messo, mi avvicina a se e mi fa appoggiare la testa al suo petto, abbracciandomi.
“Lo so che non fai queste cose e che non sei una donna da una notte e via. Non credere che non lo sappia. Forse le cose ci sono scappate di mano ma… è stato bellissimo e al di là del panico che provi ora, vorrei davvero che tu potessi darmi un’opportunità.” Mi allontano sbattendo gli occhi.
“Perché?” C’erano miliardi di cose che potevo dire, tra tutte ho scelto la più stupida. Ridacchia avvicinandomi a sé di nuovo, questa volta però i nostri volti sono vicini e le sue labbra mi baciano dolcemente per un po’.
“Perché sei bella, mi piaci e voglio conoscerti di più. Ti basta come risposta?”
“Mi tradirai?” Scoppia a ridere per la mia domanda. Okay, stasera proprio non ci sono con la testa. “Scusa, domanda idiota. Non ho diritto di dire una cosa del genere.” Torna serio di colpo e mi guarda negli occhi.
“Non ho mai tradito una donna in vita mia Bella. Sono onesto fino al midollo, è uno dei pregi e dei difetti che devi imparare ad amare di me se vuoi provarci.”
“Okay. Onesto fino al midollo.”
“Già.” Alza il sopracciglio e mi guarda come se sapesse che gli devo raccontare qualcosa.
“L’altra sera quando mi hai portata qui… pensavo che Tania fosse la tua fidanzata incinta. Mi sembrava di essere ricaduta nella storia che si ripete, e me ne sono andata.”
“Eri gelosa?”
“Marcia.” Annuisco e sospiro. Ha detto onestà, giusto? “Sono una tipa molto gelosa. Posso controllare la mia gelosia, non faccio scenate, ma non sono sicura di me stessa e ho sempre paura che la persona che sta con me possa stufarsi di come sono e cerchi un’altra compagna. L’insicurezza mi fa essere gelosa e la gelosia mi fa fare cose stupide.”
“Tra noi non era ancora successo niente però.”
“Lo so, ma io avevo già un sacco di fantasie in testa, e tu per me, lì dentro, eri già mio… per cui ecco spiegata la mia fuga.”
Mi stringe e mi guarda negli occhi.
“Non scappare più. Se c’è un’altra cosa che odio profondamente è la gente che fugge. La mia ex è scappata lasciandosi dietro me e nostro figlio senza dire una parola. Non è una cosa che gestisco bene.” Annuisco e stringo le braccia attorno al suo collo, la coperta scivola dalle spalle ma lui mi fa sedere sulle sue gambe abbracciandomi stretta ed è come se fosse la mia coperta umana.
“Niente fughe d’ora in poi.”
“Bene.”
“Vuoi davvero provare a uscire con me?”
“Sì. E tu?” Lo bacio sulla guancia e sulla mandibola.
“Sì.” Stiamo abbracciati in silenzio, sorseggiamo il tea caldo e quando nota che mi sto appisolando appoggiata al suo petto decide che è il momento di accompagnarmi a casa. Mi fa indossare il cappotto e in meno di mezzora siamo davanti alla casa di Jasper.
“Ti prego, non avere una crisi di panico stanotte, né domattina. Se hai bisogno sai dove trovarmi, ma non impazzire!” Il suo sguardo preoccupato mi fa ridacchiare.
“Niente crisi di panico. Promesso.”
“Bene, perché è stato davvero stupendo e voglio rifarlo ancora, ancora e ancora!” Sghignazziamo all’interno dell’auto parcheggiata lungo il marciapiede.
“È stato stupendo, sì.”
“Vai a dormire, ci vediamo domani!” Si avvicina a baciarmi e ora, più sicura di molto prima, gli circondo il volto con le mie mani per non farlo allontanare. Quando approfondisco il bacio ansima nella mia bocca e si stacca con forza. “No, ti prego. Prima di stasera non andavo a letto con una donna da quattro anni, sono ancora pieno di voglia repressa!” Mi avvicino, con lo sguardo e il sorriso malizioso, mi sporgo su di lui e lo bacio a labbra aperte. Un bacio bagnato, con tanta lingua, con morsi sulle labbra a e pieno di gemiti.
“Dio, se non scendi dall’auto potrei davvero spogliarti dei jeans e entrarti dentro immediatamente.” Sghignazzo allontanandomi.
“Vado. Buonanotte Edward!” Mi bacia tenendosi a distanza con il corpo e non approfondendo il bacio, ma mi accarezza la guancia con il pollice per farsi perdonare. Potrei arrabbiarmi e alzare la voce, dicendogli che non è affatto il comportamento adatto come prima serata insieme, ma sinceramente dopo quello che mi ha detto, mi sento solo orgogliosa e eccitata.
Salgo in camera e mi lascio cadere sotto le coperte ancora vestita, chissenefrega, sono così stanca e felice che non mi interessa nulla.

La mattina dopo mi sveglio decisa a fare una piccola pazzia, mi faccio la doccia e mi vesto di fretta e chiedo in prestito l’auto di Alice. Il pomeriggio, quando arrivo al villaggio ed entro nella casetta dello staff devo prendere un profondo respiro. Sono sommersa dalle immagini di ieri sera e non è il caso di proiettarle anche agli altri che stanno sorseggiando cioccolata calda. Edward indossa già il vestito, ma non la barba e neanche il cappello. Quando gli altri escono e ci lasciano soli si avvicina e mi abbraccia.
“Hai dormito bene?”
“Benissimo, tu?”
“Anche.” Mi bacia la guancia, la mandibola, il naso, gli zigomi e poi ridiscende verso le labbra. Non approfondisce subito il bacio, e non credo lo faccia lui in realtà; sono io ad aprire le labbra e a leccargli le sue con la lingua. Resta qualche attimo incollato a me a baciarmi ma poi si stacca allontanandosi e mettendo tra me e lui anche il tavolo della casetta.
“Problemi a controllarti?” Annuisce e respira a fondo. “Prometto di fare la brava tutto il giorno.”
“Che tu faccia la brava o meno, poco importa. Mi basta guardare come ti pieghi a parlare con un bambino per farmelo venire duro. Hai un culetto da favola. Per non parlare del nome che ti hanno dato. Leccalecca. Non sto qui a elencarti le mille immagini che ogni volta affollano la mia mente. Ti dico solo che la maggior parte includono te in ginocchio, tra le mie gambe.” Scoppio a ridere e, eccitata dalle sue parole, tolgo il cappotto lentamente fissandolo negli occhi, tolgo il maglione e i jeans. Indosso un paio di pantacollant neri e una maglietta termica, dalla sedia prendo la mia divisa da elfo e, forse, faccio a posta a girarmi lentamente e piegarmi a infilare i pantaloni a calzamaglia.
“Smettila, ti prego.” La voce roca e disperata mi fanno sorridere. Indosso la casacca, la lego in vita e mi piego ancora, lentamente, per indossare gli stivaletti neri. “Oh cazzo!” Sento la sua testa sbattere contro il legno della casetta e scoppio a ridere. “Malefica, sei malefica!”
Lo raggiungo e lo abbraccio, alzandomi sulle punte dei piedi per arrivare alla sua bocca.
“Stasera potremmo stare al caldo della tua macchina invece che dentro questa fredda casetta, il giro per arrivare a casa potrebbe essere un pochino più lungo, se a te va bene.”
“Oh, credo proprio che ci saranno dei lavori in corso e dovrò fare una bella deviazione!”
Gli sorrido prima di baciarlo ancora e ancora, fino a sentirlo gemere nella mia bocca.
“Va bene, andiamo o non rispondo più di me.” Scappa dalla porticina come se avesse il diavolo alle calcagna e mi fa scoppiare a ridere.

La sera mi aspetta, usciamo dalla casetta insieme e come il resto della giornata siamo elettrizzati. Ci siamo scambiati sguardi languidi, parole sussurrate, leggeri sfioramenti tutto il cazzo di pomeriggio. Ora non vedo l’ora di infilarmi nella sua macchina e darci dentro fino a farci arrestare per atti osceni in luogo pubblico. Mi prende per mano e mi guida fino al suo appartamento, stiamo in silenzio, ma non siamo in imbarazzo. Si avverte una certa attrazione ed eccitazione scorrere attraverso i nostri corpi.
“Sei sicura di non voler salire da me?”
“Hai davvero intenzione di portarmi nel tuo letto e poi uscirne per accompagnarmi a casa?”
“Potresti… dormire da me e domattina andare a cambiarti appena ti svegli. La macchina è parecchio scomoda.”
“Vuoi dare spiegazioni a tuo figlio?” Mi guarda confuso, poi scuote la testa. “E allora macchina sia.”
“Bella…” Mormora guardandomi incerto se continuare o meno con il discorso.
“Ehi, è normale. Non sono stupida e non puoi comportarti come con gli adulti eludendo le sue domande. Non puoi neanche portarmi a casa tua e sperare che gli piaccia abbastanza da instaurare un feeling con lui per la vita. Cose del genere sono parte delle favole. Andiamoci con i piedi di piombo, possiamo divertirci in altri modi.” Strizzo l’occhio e passo il dito lungo la sua mandibola. Sale di corsa in casa a prendere le chiavi, lasciandomi all’interno del portone, quando torna uno sguardo acceso e focoso gli colora gli occhi. Mi trascina verso la macchina, e guida frettolosamente verso una zona della cittadina che non conosco, poi svolta in una stradina e nel buio non si nota niente altro che alberi. Quando parcheggia siamo isolati come mai.
“Ho trovato questo posto per sbaglio, mi ero perso anni fa. Non mi ricordavo neanche esistesse. Non ci viene mai nessuno, non è il classico posto dove i ragazzini vanno dopo il ballo scolastico e abbiamo tutta la tranquillità che vogliamo.”
Senza rispondergli passo nel sedile sul retro e mi segue velocemente. Farlo in macchina non mi è mai piaciuto, poco spazio e terrore di essere scoperti, ma con Edward che mi guarda voglioso dimentico ogni remora. Sfilo le scarpe, e tolgo il giaccone; mi imita e poi si avvicina a me.
“Odio il fatto di non poter stare con te come voglio.”
“Beh l’importante è stare insieme, non come.”
“Già, ma ho una voglia matta di averti sotto di me nuda e eccitata e cazzo! Devo destreggiarmi tra portiere e seggiolini.” Scoppio a ridere baciandolo e sedendomi a cavalcioni sulle sue gambe.
“Ti farò entrare di nascosto nella finestra della mia camera se ti comporti bene e mi fai urlare stanotte.”
“Dio, sì!” Lancio il maglione sui sedili davanti e resto solo con il reggiseno di fronte a lui. Sparisce in fretta anche quello, insieme alla sua felpa. Slaccia i jeans e mi fa spostare per spogliarsi e lasciarmi calciare i pantaloni sul sedile davanti. Le mutandine sono l’ultima barriera che viene tolta velocemente dal mio corpo. Riprendo la posizione sopra di lui infilando le dita tra i suoi capelli, mentre mi succhia un capezzolo e lo mordicchia. È sempre più impaziente. Gli accarezzo il petto con le unghie facendolo gemere a contatto con la mia pelle. Mi muovo sinuosamente per cercare un contatto agognato del mio centro e del suo, ma sta bene attento a non perdere il controllo. Una mano si spinge tra le mie gambe e mi accarezza, mi tocca e mi fa ansimare violentemente quando entra dentro di me con due dita.
“Preservativo?” Chiedo respirando velocemente.
“Porta oggetti davanti.” Mi stacco da lui presa da un’incontenibile voglia di cavalcarlo.
“Ci sarà un giorno in cui riuscirò a farti venire prima di sprofondare dentro di te?” Gli volto le spalle e piegandomi verso il porta oggetti lo sento imprecare. Mi accarezza il sedere, con un dito passa lungo la colonna vertebrale e scende, prosegue contornando il mio sedere per poi spingersi a morderlo con i denti. Dio, che sensazioni. Gemo mentre afferro la scatola di preservativi, sto per girarmi ma con una mano sul fianco mi ferma.
“Stai ferma così, non ti muovere. Sono settimane che sogno di prenderti così, di farti piegare in avanti con il tuo culo in bella vista. Cazzo, sei perfetta. Passamene uno.” Apro la scatola ancora sigillata, impreco perché non ho le mani ferme e faccio una fatica del diavolo, quando riesco ad aprirla sono veloce a darglielo. Sento lo strappo della bustina, un ansito mentre lo indossa e poi le sue mani sono sui miei fianchi. Mi tengo ferma grazie ai due sedili davanti che fungono da maniglie, mi tira verso di sé facendomi sedere su di lui. “Oh Dio!” Geme appoggiando la testa sulla mia schiena. Il mio piano di tenermi ai sedili va in fumo, perché una sua mano sale lungo il mio braccio, fino ad arrivare alla mia mano, per portarsela tra i capelli. Evidentemente gli piace parecchio. Mi tengo sulla sua coscia con l’altra mano, appoggio il petto al suo e volto la testa per cercare la sua bocca. Il mio seno viene stretto in due morse calde e esigenti: lo stringe, le muove in circolo e strizza i capezzoli tra le sue dita. È una goduria. Le spinte sono lente, profonde e regolari, fino a quando non gli mordo il labbro inferiore e si scatena. Alza i fianchi con un ritmo serrato, mi muove come preferisce e quando è sull’orlo dell’orgasmo sposta le sue dita tra le mie gambe, le muove in circolo sul clitoride e i miei muscoli si stringono attorno a lui. Ci stacchiamo dal bacio solo per gemere e ansimare uno sulla bocca dell’altro, ci respiriamo addosso ed è così eccitante essere un tutt’uno con lui che vengo e i brividi mi ricoprono la pelle. Con due ultime spinte si riversa in me e la testa gli cade sulla mia spalla, sfinito esce da me e mi abbraccia stretta. Afferra da qualche parte la sua felpa e in qualche modo ce la butta addosso, perché non prendiamo troppo freddo.
“È scomodo farlo in macchina, ma mi sento di nuovo un ragazzino!” Ridacchio sul suo collo e lo bacio numerose volte dolcemente. “Rivestiamoci, prima di prendere un raffreddore!” Le manovre per vestirsi sono le peggiori di tutte. Sei stanca, spossata, sudata e non hai nessuna voglia di indossare degli abiti sulla pelle sensibile. Decisamente una scocciatura. Dopo mezz’ora siamo sulla via del ritorno, la sua mano è appoggiata alla mia gamba ed ha un sorriso felice sul volto. Io credo di essere la sua controfigura donna!
“Che ne dici se pranziamo insieme domani?”
“Sarebbe meraviglioso, ma non ruberai altro tempo a tuo figlio?”
La sua espressione si rattrista, credo che per una volta non abbia pensato che a sé stesso e la cosa, da una parte, mi fa molto piacere.
“Ehi, puoi portare anche lui. Per me non è un problema. Certo non sarà un’uscita romantica con tanto di candele, fiori e cioccolatini ma un panino gigante e patatine fritte sono il top per me!” Scoppia a ridere scuotendo la testa e fermando l’auto davanti casa di Jasper.
“Cerco di evitare i fast food come la peste, ma il nano mi costringe ad andarci regolarmente almeno una volta al mese. Come chef vorrei eliminare dalla faccia della terra quei posti, ma devo ammettere che qualche volta è bello mangiare schifezze in compagnia!” Sorrido e gli stringo la mano appoggiata alla coscia.
“Bene, e schifezze siano!”
“Per Robert… pensi sia una buona idea?” Mi chiede tornando serio.
“So che è presto per darmi un titolo o una posizione nelle vostre vite ma… potrei essere semplicemente un’amica con cui passare qualche ora a pranzo. Che ne dici?”
“Non voglio affrontare le cose. Farlo crescere senza sua madre è stato difficile e lo è tutt’ora, non voglio che si illuda di avere una figura femminile a fianco prima di essere certo di quello che faccio.”
“Hai ragione, ti capisco. Senti pensaci stanotte o domattina. Aspetto un tuo messaggio intorno alle undici per sapere cosa vuoi fare. Ma non voglio che rubi tempo con tuo figlio per me, davvero. Possiamo ritagliarci del tempo dopo che le feste sono finite.” Mi bacia dolcemente e mi accarezza la guancia con il pollice. Prendo l’agenda e la penna dal vano oggetti e segno il mio numero su una pagina bianca.
“Sei bellissima, Bella. E sei davvero fantastica.” I baci non finiscono, e come la sera prima staccarsi da lui è davvero difficile.
“Ci sentiamo domani. Buonanotte Edward.” Lo bacio sul naso e poi sulla bocca e scendo dall’auto.

Il messaggio è arrivato molto prima delle undici. Mi ha scritto che alle undici e quaranta sarebbero passati a prendermi per andare al fast food al centro commerciale. Capii che aveva deciso di essere un po’ egoista e di vedere come andavano le cose con Robert. Indossai un jeans e un maglioncino leggero e nella grossa borsa che portai con me avevo una maglia termica e i pantacollant caldi per il lavoro del pomeriggio, ipotizzando che non sarei riuscita a passare da casa per cambiarmi. Quando arrivarono ero pronta. Robert era seduto nel seggiolino sul sedile dietro, presi posto davanti e sorrisi a Edward che era abbastanza agitato, poi salutai Robert e gli dissi il mio nome.
Il resto del viaggio verso il centro commerciale si era svolto con poche chiacchiere e le domande arrivavano tutte dal bimbo che voleva sapere qualcosa sul tempo, sul Natale, se credevo a Babbo Natale e cose del genere. Quando abbiamo preso posto ad un tavolino del fast food, con fatica dato che molti genitori avevano avuto la stessa idea, Edward sembrava voler vomitare. Lasciai che Robert si sedesse nel mezzo ma alzai le sopracciglia verso Edward quando prese a sbottonargli la giacca con mani tremanti.
“Okay campione, credo sia il momento di lasciare andare il papà al bagno. Gli scappa la pipì così tanto che gli tremano le mani!” Armeggiai con la cerniera del nano e tolsi il cappotto e la sciarpa mentre Edward mi fissava sgomento. Robert ridacchiò come un pazzo e guardò suo padre prendendolo in giro. Ecco, questo è più o meno quello che accadde prima che Edward si arrabbiasse tanto da trincerarsi dietro il menù, ed erano passati dieci minuti.
Aveva rivolto la parola a Robert solo per sapere se preferiva il panino con il pollo o con l’hamburger. Fine. Mi stavo arrabbiando, ma cercavo di non mostrarlo.
“Sei un’amica di papà?”
“Sì piccolo. E tuo papà è molto amico di mio fratello!”
“Hai un fratello?”
“Certo, più grande.” Lancia un’occhiata a suo papà e poi torna a rivolgermi la parola.
“Che lavoro fai?”
“Vado ancora a scuola, non lavoro.”
“A scuola?”
“Sì, tu vai all’asilo vero? Ti piace?”
“Sì, ho tanti amichetti. Ehi papà, sei triste?”
“No nano.”
“Sì invece. Mi dici le bugie.”
“Okay, ti dico le bugie. Sono arrabbiato, ma poco poco.” Il nano sghignazza e si volta verso di me.
“Non è mai arrabbiato poco poco. Mi ha detto un’altra bugia.” Scoppio a ridere e gli accarezzo la testina. Veniamo interrotti dalla cameriera che prende l’ordine e indica una sala dove i bambini possono giocare e Robert chiede al padre se può andare. Titubante lo accompagna e poi torna al tavolo da solo e io scoppio.
“Che diavolo c’è?”
“Non serve fare una sceneggiata per le mani che tremano, cercavo solo di calmarmi.”
“Esatto, devi darti una calmata. È uno dei peggiori appuntamenti della mia vita fino ad ora, solo tuo figlio ha salvato la situazione. Vuoi dirmi che ti prende?”
“Ero ansioso per oggi, non ho dormito stanotte e ho il terrore che lui si affezioni e poi tra noi non funzionino le cose.” Mi spingo sul sedile al suo fianco, amo la sua onestà.
“Ehi, è un semplice pranzo in un fast food, non mi stai portando a casa presentandomi come la tua fidanzata. Robert è davvero carino e simpatico, è la tua fotocopia ed è più intelligente di quello che credi. Devi rilassarti e goderti la giornata, ci andremo con i piedi di piombo.”
“Promesso?”
“Assolutamente.” Mi guarda negli occhi e resta a fissarmi per un tempo lungo un’eternità, poi mi sorride.
“Ho una voglia di baciarti che mi consuma.” Esalo un sospiro di sollievo e rispondo al sorriso.
“Anche io.”
Il nano torna al tavolo perché ha fame e poco dopo arrivano le ordinazioni. Chiacchieriamo e l’ansia di Edward finalmente sparisce. Scherziamo con il bimbo e cerco di non mostrarmi troppo affettuosa, non ha bisogno di segnali ambigui già da ora, anche se è talmente carino che vorrei strapazzarlo di coccole.
“Posso fare un giro sulla giostra, papà?” Edward paga il biglietto e lo accompagna a sedersi su uno dei cavalli, di fianco a un’altra bambina. Poi torna al mio fianco e senza farsi troppo notare intreccia le dita della sua mano con le mie.
“Scusa per prima, sono stato preso dal panico.”
“Perdonato. Domani non si lavora, resisterai senza baciarmi?”
“Farò una scappata dopo che avrò messo a nanna il pomeriggio Robert, se sei libera.” Mi lancia un’occhiata maliziosa che mi fa ridacchiare, annuisco e vorrei tanto appoggiare la testa sulla sua spalla. “È ancora l’appuntamento peggiore della tua vita?”
“No, è perfetto, davvero.” Dopo aver passeggiato attorno alle vetrine colorate e illuminate per un’oretta torniamo a casa. Avendo poco tempo mi faccio lasciare per strada, molto vicina al villaggio di Natale.
“Papà, Bella assomiglia all’elfo Leccalecca, sai?”
“Davvero?”
“Sì, è l’aiutante di Babbo Natale. Adesso sta mangiando, ma sono sicuro che tra poco uscirà fuori per giocare con i bambini. Mi ci porti oggi?”
“Lavoro nano, fatti portare dalla zia però.”
“Ma io volevo stare con te.”
“Domani sono tutto tuo, promesso.”
“Domani ci saranno i regali vero?”
“Sì, ora saluta Isabella.”
“Ciao Bella, Buon Natale!” Gli accarezzo la gambina e ricambio il saluto, saluto anche Edward e lo ringrazio amichevolmente per poi scendere sorridente dalla macchina.
Mezzora più tardi sono già vestita e truccata quando vengo girata di scatto e baciata con foga.
“Cerca di fare in fretta stasera a cambiarti.” Mormora tra un bacio e l’altro. Rispondo di sì cercando di non perdermi troppo nelle sue labbra, quando si apre la porta sobbalziamo entrambi.
“Bene, era ora finalmente! Ma datevi una mossa e fatevi trovare fuori fra cinque minuti o giuro che vi sommergerò con la mia ira!” Mi sento come una ragazzina che è stata beccata da i suoi genitori a pomiciare in macchina del proprio ragazzo.
Aiuto Edward a infilare gli scarponi sotto al vestito e insieme ricominciamo la recita giornaliera. Quando dopo aver pomiciato sui sedili dell’auto davanti a casa è finalmente deciso a lasciarmi andare, tiro fuori dalla borsa tre pacchettini. Mi guarda confuso.
“Cosa sono?”
“Pensieri, per te, Robert e una cosina per Tania. Nulla di che. Ma Robert mi ha fatto pensare alla carta colorata l’altro giorno e non ho resistito.” Mi guarda come se ­mi fossero spuntate le corna sulla testa. “Dai avanti, prendili!”
“Non ti ho fatto nessun regalo.” Alzo le spalle e le rilascio cadere velocemente.
“Non è importante. E non è nulla di impegnativo.”
“Tu odi il Natale.”
“Diciamo che ultimamente ho un buon motivo per riconsiderarlo.”
Mi sorride dolcemente e afferrandomi il viso con le sue mani mi bacia ancora una volta. No, non è decisamente pronto a lasciarmi andare.
“Grazie, ma non dovevi.”
“Si dice che ciò che conta è il pensiero… Tu ultimamente sei il mio pensiero fisso e questo è il miglior regalo di Natale che potrei avere ora, in questo periodo. Mi stai tirando fuori da una situazione che mi ha gettata nello sconforto totale e sono davvero felice di averti conosciuto e di darci un’opportunità.”
“Adoro quando sei così onesta e­ chiara con me, poche persone lo sono.”
“Lo so, ma ti ho fatto una promessa e la manterrò. Ora vai. Ci sentiamo domani!” Lo bacio ancora una volta e scendo dall’auto.

La mattina seguente sono svegliata dalle urla in salone della mia nipotina, indosso una vestaglia di pile e scendo in gran fretta per non perdermi l’apertura dei regali.
Ovviamente l’attenzione è tutta dedicata a lei, nonostante ci siano una moltitudine di pacchetti sotto l’albero. Gridacchia e strappa le carte con un’emozione meravigliosa sul volto e sono felice di aver contribuito con una bellissima bambola per la carrozzina che le hanno regalato i suoi. A turno prendiamo i pacchetti sotto l’albero e sono davvero stupita di trovarne due per me. Uno da parte di Alice e Jasper e l’altro da parte di Rosalie, che deve aver consegnato a mio fratello in segreto. Ho ricevuto un e-reader nuovo e un libro. All’interno del libro però c’era anche una foto del gruppo con cui stiamo lavorando al villaggio e una dedica dolce da parte di Rose.
Passiamo la giornata a casa di mamma e papà, dopo quasi un’ora di viaggio, è da anni che non sono così felice in questa giornata e tutti sono stupiti ma contenti di vedermi allegra e sinceramente divertita da ciò che mi circonda.
Solo verso le tre di pomeriggio riesco a prendere tra le mani il telefono e leggere tutti i messaggi di auguri, tra cui quello di Edward, lungo due pagine.

“È il pensiero che conta, ma ciò che hai fatto è meraviglioso. La foto ha già preso posto sul mio comodino. È meravigliosa, grazie. Il nano è contento del suo modellino di trenino, l’ha mostrato ai miei come se fosse il più bello tra i regali. Tania ringrazia per il cappello. Sei così meravigliosa che non so cosa fare con te. E mi sento in colpa per non aver pensato a prenderti qualcosa. Mi dispiace. Buon Natale Bella, con affetto.”

Rispondo a tutti gli altri con cortesia, a lui rispondo per ultimo cercando di non emozionarmi troppo.

“Non sentirti in colpa, per favore. Sono solo sciocchezze. Il mio regalo quest’anno sei tu, grazie di avermi fatto amare di nuovo il Natale. Te ne sarò infinitamente grata. Buon Natale, con affetto.”

Quando torniamo a casa sono le sei e mezzo, abbiamo gli avanzi del pranzo da riscaldare per la cena e una busta piena zeppa di giocattoli per la piccola. Davanti al portone vedo Edward camminare da una parte all’altra indeciso se suonare o meno. Scoppio a ridere e Jasper mi lancia un’occhiataccia.
“Che ci fa qui?”
“Oh andiamo Jazz!”
“Cosa?”
“Non dirmi che non ti sei accorto che tua sorella ha una cotta spaziale per il tuo amico!” Lo sguardo di Jasper passa prima su Alice e poi su di me e via così per circa una decina di volte. “Avanti principessa, scendi prima che tuo fratello ti faccia fare una figuraccia!” Adoro Alice con tutto il cuore. La bacio sulla guancia prima di scendere velocemente dall’auto.
“Ehi” Mormoro quando arrivo di fronte a Edward.
“Ehi”
“Vuoi andare da qualche parte?”
“Ti porto da me.”
“E Robert?”
“Sta dai miei fino a cena. Poi lo vado a prendere.”
“Casa libera?”
“Liberissima.”
“Andiamo.” Salgo in macchina con lui e faccio un cenno a Alice che nel nostro linguaggio segreto vuol dire non aspettarmi che non so quando ritorno.
Non è di molte parole, parcheggia sotto il suo palazzo e mi accompagna al secondo piano in silenzio. Quando entriamo in casa sua sospira e si volta verso di me con lo sguardo determinato e dolce.
“Ci voglio provare davvero Bella, voglio far funzionare le cose tra di noi.” Annuisco, ho capito che vuole provarci. “E non intendo solo tra noi due. Voglio che inizi a far parte della mia vita e che Robert impari a volerti bene. Sono cose che senti di volere anche tu?” Devo dire che la cosa mi ha spiazzata. Ieri era il paladino dell’andiamoci con calma, ora non so bene cosa mi stia chiedendo. “Non andare nel panico, per favore. Non ti sto chiedendo di venire a vivere qui o di sposarmi.” Sospiro di sollievo, sì nell’anticamera del mio cervello tra le ipotesi c’era anche quella folle. “Ti chiedo solo se vuoi davvero frequentarmi e prendere l’intero pacchetto.” Mi avvicino e gli circondo il volto con le mie mani.
“Sei tu quello che sta andando nel panico. Abbiamo un’opportunità, la sfrutteremo al meglio. Tuo figlio è una parte di te, nel momento in cui sto con te so che sto anche con Robert ed è un bambino facile da amare.”
“È una grande responsabilità.”
“È una grande opportunità.”
“Dio, sei perfetta.”
“Anche tu.”
“Grazie del regalo, la fotografia è meravigliosa, ne ho tante di me e Robert ma non ero mai vestito da Babbo Natale. È stato un pensiero davvero carino.” Gli sorrido e appoggio le mie labbra sulle sue. “E ti devo dire un’altra cosa.” Sbuffo ma sorridendo.
“Dimmi.”
“Adoro il fatto che tu faccia parte di questo Natale.” Gli sorrido come un’ebete e solo grazie al suo bacio profondo e con tanto di lingua riesco a smettere di sorridere. Poi, a modo suo, mi mostra la casa di corsa per gettarmi di peso sul letto.
“Finalmente comodi!”

Si è preso tutto il tempo del mondo per baciarmi ogni singolo punto della pelle; ha leccato ogni centimetro roseo e mi ha fatta venire due volte prima di entrare dentro di me e spingere come desiderava da giorni. Quando ci siamo guardati, abbracciati e sudati dopo l’orgasmo, mi ha baciata e mi ha sorriso dolcemente.
Questa è la giornata migliore della mia vita fino a questo momento.



Diversi anni dopo.
Edward.


“Ehi papà, papà svegliati è Natale! Apriamo i regali!” Apro gli occhi e incontro quelli verdi del mio piccolo nano.
“Devi parlare a voce bassa, lo sai. Non vogliamo svegliare tutta la casa!”
“Ma io voglio aprire i regali.”
“Arrivo, vai a mettere le ciabattine!”
Mi volto sul fianco verso la bruna che mi dorme accanto e ridacchio nel vederla sveglia.
“Scusa, sai che ha la brutta abitudine di parlare a voce alta.”
“Non importa. Andiamo ad aprire i regali.”
“Io l’ho già tra le mie braccia, anche quest’anno.” Mia moglie mi sorride e appoggia le labbra sulle mie. Quando ci alziamo dal letto e ci fermiamo in corridoio per aspettare Robert lo vediamo arrivare con Kelly a manina, la piccola ha due anni e fa fatica a camminare da sola.
“Era sveglia!” Il nano scrolla le spalle e si avvicina a noi. L’albero straripa di regali, ovviamente la maggior parte sono per i piccoli. Robert aiuta la sua sorellina a scartarli e solo poi si dedica ai suoi. So che lì sotto c’è un pacchettino per Isabella, un ciondolo a forma di leccalecca per ricordarle il Natale di sei anni prima quando ci siamo conosciuti e innamorati. Ora siamo una famiglia, Robert ha dieci anni, Kelly due e siamo sposati da tre anni. La vita con lei accanto è meravigliosa.
“Ehi Robert, prendi il pacchettino per Isabella.” Non so perché ancora non si sia deciso a chiamarla mamma, anche se hanno un legame particolare di amore che non mi sarei mai aspettato. Bella è una mamma meravigliosa e una donna sorprendente.
“Non dovevi prendermi niente, è la tradizione!” Sì, ogni anno abbiamo evitato i regali, preferendo scambiarci un simbolo tutto nostro: una fotografia, un cioccolatino… qualsiasi cosa avesse importanza per noi. Solo che l’ho visto e non ho resistito. Lei ancora non mi ha donato il suo simbolo e vorrei sorprenderla, non mi riesce spesso.
Quando lo scarta e fissa il ciondolo, la osservo, gli occhi le si riempiono di lacrime e, ad essere sincero, non posso che imitarla.
“Oh Dio, che bello. Grazie Edward.” Mi bacia e mi prende la mano. “Anche io devo darti il mio regalo, spero solo che ti piaccia abbastanza perché il tuo è davvero splendido!” Mi dice sorridendo, anche se un certo bagliore negli occhi mi dice che mi sta solo prendendo in giro. Il ciondolo le piace così tanto che lo indossa subito lasciando da qualche parte la scatoletta. Poi sempre con la mano sulla mia la guida sulla sua pancia e mi sorride, quello che dice poi mi sorprende e mi fa inginocchiare sul pavimento perché le gambe mi cedono. “Aspettiamo un altro piccolo nano.” Scoppio a ridere e si mischiano anche le lacrime mentre bacio la sua pancia e l’abbraccio stretta. Robert si avvicina confuso mentre Kelly strappa in mille pezzi la carta colorata ignara di quello che accade.
“Che succede?” Bella si inginocchia di fianco a me e accarezza la guancia di Robert.
“Tesoro, saresti contento se Babbo Natale ti portasse un’altra sorellina o un fratellino?” Il nano sorpreso come me annuisce silenziosamente poi guarda Bella negli occhi e le sorride.
“Aspetti un fratellino o una sorellina mamma?” Mia moglie scoppia a piangere e io afferro mio figlio per abbracciarlo stretto.
“Sì, la mamma aspetta un fratellino o una sorellina.”
“Wow, forte! E stai bene mamma?”
“Sto benissimo piccolo!” Dice ancora piangendo.
“Perché piangi?”
“Perché ti voglio bene e sono contenta che finalmente mi chiami mamma.” Robert arrossisce e la bacia sulla guancia, mia moglie lo abbraccia e poi gli scompiglia i capelli.
“Ti voglio bene anche io.” Torna a giocare con i suoi nuovi regali e ci lascia un ultimo momento per noi.
“Ti amo, dolcezza.”
“Anche io ti amo, Edward.”
“Sei felice?” Mi sorride e fa un cenno affermativo con la testa. “Ogni anno mi sorprendi sempre più di quanto faccia io, per questo e per come ami mio figlio come se fosse nato da te, tra le altre cose, ti amo sempre di più.”
Mi bacia e mi stringe le mani tra le sue, mi sorride e mi bacia ancora.
“Questo è il Natale perfetto, Edward.”
Sorrido e la bacio. Lo dice ogni anno, ed ogni anno è sempre più bello.